Incontro Chandra Prasad Kacchipati, economista e direttore di una stimata ong del Fair Trade locale, a Bhaktapur. La cittadina – gioiello del Nepal medievale, fortemente danneggiata dal terremoto del 2015, oggi è di nuovo in piedi. Sono venuto a parlare con Chandra per capire come mai i nepalesi emigrino ormai in massa. L'emigrazione è uno dei fenomeni centrali quando si parla del piccolo, ma sovrappopolato, paese himalayano. Chiuso tra le grandi monatgne, cuscinetto tra India e Cina. 

“E‘ vero, sono tanti i nepalesi in età da lavoro all’estero“, dice Kacchipati. “Su 30 milioni di abitanti, si stima che i migranti siano ben 4 milioni“.

 

“Due le estrazioni specifiche del fenomeno“ spiega lui. “Abbiamo gli appartenenti alla lower middle class, la classe media non abbiente, senza titoli di studio apprezzabili, che vengono perlopiù dai villaggi rurali. Operai, contadini, muratori generici, forza-lavoro non specializzata. Dove vanno? Oltre che in India si dirigono dritti negli Emirati del Golfo ed in Malaysia, queste sono le destinazioni più gettonate. Giovani ma anche meno giovani, soprattutto maschi. Laggiù forniscono manovalanza a buon mercato per i lavori più umili, quelli che la gente del posto non vuole fare“ (tutto il mondo è paese). Anche perchè si trovano legioni di immigrati come i nepalesi disposti a prestarvisi al loro posto.

In questo caso, le aspirazioni intellettuali degli emigranti sono limitate. Preme loro essenzialmente guadagnare il meglio possibile, più di quanto potesse succedere in patria, risparmiare, mandare i soldi a casa. Integrarsi, inserirsi nell’esistenza e nella cultura della destinazione non è l’aspirazione di questa gente. I loro sono contratti a termine, tali in modo piuttosto rigoroso, due o tre anni, di solito vincolati ad uno specifico sponsor (datore di lavoro) nel paese ospitante, che garantisce l‘occupazione. Al termine, i migranti potranno rinnovare o lasciare il paese, per poi ritornarvi, eventualmente, con un nuovo contratto.

Chandra Prasad Kacchipati, economista e direttore di Sana Hastakala, stimata ong del Fair Trade locale. Foto Renzo Garrone 

 

"L’altra estrazione migratoria“, prosegue Kacchipati, “è costituita dalla Middle Class. Che in Nepal è minoritaria, ma ben presente. Gente che vive in condizioni accettabili, spesso con un buon titolo di studio ed una qualche qualifica. In questi casi si emigra per trovare condizioni migliori, in occupazioni qualificate, spesso intellettuali. Ma se si tratta di giovani è molto difficile che tornino. Questo è l‘aspetto più preoccupante del fenomeno, il brain drain, una massiccia fuga dei cervelli“.

Di chi non vede prospettive in patria, e ha costruito, dell’estero, un sogno troppo accattivante per rinunciarvi.  Destinazioni, questa volta sono gli Stati Uniti, l‘Australia, vari paesi europei. Ma anche il Giappone, dove però i migranti nepalesi farano i (o le) badanti (il Giappone si conferma il paese più anziano del pianeta).

Kacchipati parla per esperienza. Ne sa qualcosa. Entrambi i suoi figli sono in Australia. Per star loro vicino lui ha dovuto assentarsi dal Nepal a lungo, quasi due anni. Il figlio maschio, 30 anni, sposato con una nepalese e trasferitosi con lei, guadagna bene. Tanto che a Sydney, in pochi anni, si è già comprato tre appartamenti, mostrando quel tipo di voracità propria di chi avrebbe sempre voluto migliorare la propria posizione senza poterselo permettere. Quando il vento gira, in un nuovo paese, con mutate condizioni economiche e minori condizionamenti culturali, succede sovente che gli immigrati si applichino al business con entusiasmo carnivoro. Diventano tra i primi ad arricchirsi.

Anche la figlia venticinquenne di Kacchipati è andata via qualche anno fa, lei per studiare, dopo un Diploma alle Superiori preso in Nepal. In Australia si è laureata e adesso lavora (la legge sul posto consente agli studenti 20 ore lavorative ben retribuite la settimana, così i ragazzi possono studiare ma allo stesso tempo mantenersi: la famiglia non ha dovuto svenarsi per lei). La ragazza ha anche conseguito la cittadinanza australiana, ma senza doppio passaporto. E Kacchipati dispera ormai di rivederla in patria, cosa alla quale come padre, affettivamente, terrebbe. Al contempo, però, egli comprende le ragioni della figlia. E quando gli domando quali percentuali di rientro in Nepal egli veda per ragazzi di quell’età, ci pensa un attimo ma poi risponde seccamente “non più del 5%“. Significa che chi se ne va molto giovane difficilmente torna.

Al figlio maschio, invece, Kacchipati ha chiesto il sacrificio di non prenderla, questa cittadinanza australiana (visto che ce l‘ha sua moglie, i due in Australia non hanno problemi). Perchè la famiglia dispone di varie proprieta‘ a Kathmandu. “Non siamo ricchi ma apparteniamo alla middle class. Andandosene del tutto il mio ragazzo perderebbe la nazionalità nepalese, e non potrebbe più ereditare quanto possiediamo“. (Secondo il diritto Nepalese ereditano i maschi, le femmine no).

 

 Boudha, ristorazione, novembre 2018. Foto Renzo Garrone 

 

Dall’azienda che Kacchipati dirige, una ong del Fair Trade che esporta prodotti artigianali, traggo un altro esempio di brain drain. Gli eventi risalgono a una manciata di anni fa. Dal Nepal si emigrava già, anche se meno di adesso. A quel tempo RAM, la mia organizzazione, comprava da questa ong (Sana Hastakala). Manjushree, una ragazza molto sveglia e capace, era una delle dirigente, nonostante all’epoca non avesse neppure trent’anni. La sua presenza era essenziale nelle relazioni commerciali dell’azienda perchè, in anticipo e meglio di tutti gli altri colleghi, era stata capace di ricorrere all’informatica per comunicare efficacemente e rapidamente coi compratori d’oltre oceano. Manjushree e la mia collaboratrice Marta, tra l’altro coetanee, avevano legato subito e questo, per diversi anni di fila, si era rivelato un vero punto di forza nella relazione commerciale, mettendoci nella condizioni di acquistare esattamente quanto desideravamo, passando agli artigiani nepalesi il design che desideravamo venir prodotto, ricevendone quindi per via fotografica i campioni, che con pochi commenti eravamo in grado di modificare. In breve avevamo i prodotti giusti, potevamo quindi giungere all’ordine.

Ma quello fu un periodo d’oro. Subito dopo, Manjushree si era sposata e seguendo il marito in Australia, dove aveva ricominciato subito a lavorare, non so più in che settore. Alla mia domanda in proposito, Kacchipati conferma stasera come la partenza di Manjushree “sia stata per noi una grave perdita“.

Brain drain, appunto, fuga dei quadri più capaci. Dei giovani su cui un paese ha investito, di tanta parte della futura, probabile, classe dirigente. Sono i migliori, i più richiesti, che se ne vanno. Mettiamo pure che qualche volta il paese non abbia meriti particolari, e può essere il caso del Nepal, vista la mediocrità delle sue scuole pubbliche: diciamo allora che una famiglia ha investito su una figlia ma che ora la ragazza va altrove, e difficilmente tornerà. Inevitabile? Anche vedendo di buon occhio i molteplici risvolti dell’immigrazione, la spinta verso condizioni migliori finalmente a portata di mano, il diritto di ciascuno ad inseguire un futuro adeguato, i tanti possibili lieto fine altrove, ciononostante per la famiglia si tratta di una separazione solitamente dolorosa, e per il paese di una perdita secca. Dunque, perchè tutto questo accede in modo così massiccio?

Kathmandu, centro storico, dietro Basantapur, novembre 2018. Foto Renzo Garrone 

 

I soldi, ovviamente, contano parecchio. Nelle montagne impoverite del Nepal semplicemente non si campa. Opportunità non ce ne sono. Così da decenni, stagionalmente, gli uomini migrano. D’inverno soprattutto. Prima andavano giusto in India (dove si arriva con qualche giorno di autobus; belli frullati, d’accordo, ma la cosa comporta una spesa irrisoria). Tornavano però a casa, con regolarità, nella stagione agricola. Per mandare avanti la fattoria, per quanto in condizioni stentate. Tipicamente, si tornava verso fine giugno, con l’avvento delle piogge monsoniche, a piantare riso, ortaggi, patate, dato che in quest’agricoltura montana di sussistenza si dipende interamente dall’acqua piovana (leggi, dalla clemenza degli elementi).

Con l’India, il grande paese confinante, il Nepal ha un trattato di libero scambio - i nepalesi sono spesso analfabeti e lavorano quale manovalanza - in cui i flussi di manodopera sono simili a quelli della nostra Schengen.

Ma adesso in Nepal sembra crollato anche questo ancoraggio atavico, mentale prima ancora che materiale, al villaggio originario. Tra i giovani, mi dicono, non si trova più nessuno che coltivi la terra. Per un nepalese medio di Kathmandu è uno shock: questa gente, gli imprenditori della capitale, hanno sempre avuto legioni di persone a disposizione, disposte a lavorare per cifre ridicole. Oggi non più. Nelle montagne i giovani sembra siano sempre meno reperibili ogni anno che passa. Nè li ritrovi neppure sulle terre di altri, nelle varie professioni del settore agricolo. In occupazioni di manovalanza e bracciantato che sarebbero quanto mai necessarie per la conservazione dei suoli. Occupazioni che fino a pochissimi anni fa sarebbero state appetibili. Ma di agricoltura non si campa. Purtroppo, se restano solo gli anziani, i villaggi muoiono.

Un imprenditore in Thamel mi mostra la foto di un paesaggio: si tratta dell’ansa, splendida, di un fiume sceso a valle tra le montagne. La foto è stata scattata da qualche parte a sud est di Kathmandu. In mezzo all’ansa c’è un vasto pezzo di terra che, spiega lui, da coltivare sarebbe ideale. Ebbene, non si riesce a trovare nessuno che vi si applichi. Chi fino all’anno prima avrebbe fatto quei lavori adesso va nei paesi del Golfo, o in Malaysia. Dove guadagna un pò meglio, certo, ma non benissimo. Spesso comunque tre/quattro volte quanto guadagnerebbe a casa.

Rimane il fatto che le rimesse degli emigranti sono oggi in Nepal una delle principali fonti di valuta. Decisive per il paese. (1/continua)

 Taleju Mandir, Kathmandu, novembre 2018. Foto Renzo Garrone