Appena arrivato a Tokyo, 2018, ed è la prima volta. Dopo un sonno pesante, tentando di scuotermi, affronto il mio destino. Si deve: a volte per scrollarsi di dosso il jet lag ci vuole qualche giorno, non capisci un tubo e torneresti sempre a dormire. Esco, trovo un caffè, torno all’ostello-capsule, pago, faccio due chiacchiere coi ragazzi della reception, check-out lasciando lì i bagagli, tornerò a prenderli stasera, cambio hotel. Poi acchiappo la metro fino ad Asakusa, un euro e 50, due fermate da Ueno, riesco ad arrivare in orario e non era facile: ma in Giappone i ritardi non sono contemplati, tanto vale convincersene subito.

Perché Asakusa? Perché qui, nel pomeriggio, partecipo ad un Free Walking Tour, offerto gratuitamente da un’associazione di volontari giapponesi. Partiamo dal Senso Ji, grande tempio shintoista, ammirando a due passi la Tokyo Skytree, una torre panoramica per telecomunicazioni situata a Sumida.

Leggo sui depliant turistici che, completata nel 2012, è la torre più alta del Giappone e con i suoi 634 metri di altezza persino la più alta al mondo. Oggi pomeriggio, comunque, resta in buona parte avvolta nella nebbia. Formiamo un piccolo gruppo di varie nazionalità, canadesi, irlandesi, singaporegni, il sottoscritto, con tre japs a fare da guida. Per non perderci nella folla andiamo in giro con tanto di bandierina: la brandisce senza imbarazzo alcuno Saatchi, una volontaria locale alla sua prima uscita (ma su certe cose l’imbarazzo sembra sia un’esclusiva dell’occidente).

La Tokyo Skytree a Tokyo

  

All’ottavo piano, l’edificio del Tourist Office di Asakusa contempla una terrazza panoramica, free of charge, che garantisce una vista notevole sull’affollatissimo santuario. Là sotto è tutto un brulicare di visitatori domenicali. E da quassù davvero la gente è come un fiume, ma pure il fiume vero non è distante.

La folla si dirige verso il grande complesso templare. Risalente al 628 dopo Cristo, il Senso Ji è composto da una pagoda buddhista a 5 piani e da un santuario shintoista proprio accanto. I giapponesi differenziano così i due culti: una pagoda o sito buddhista è un temple, un edificio shintoista invece uno shrine. Questo spiegano le guide volontarie. 

Se parliamo di fiumi, quello che scorre lì a fianco di nome fa appunto Sumida e attraversa il quartiere nel suo percorso verso il mare. Secondo la leggenda, furono due pescatori locali a recuperare nelle sue acque la statuetta oggi conservata nella pagoda, l’oggetto di tanta venerazione.

Nelle giornate limpide dal belvedere di Asakusa si vede persino, mi fa notare un addetto anziano, uno spicchio di Fuji, il vulcano dalla forma conica perfetta divenuto simbolo del Giappone nel mondo. Se oggi tutto resta caparbiamente del colore del piombo, potrò verificarne lo splendore tornandovi giorni dopo, in una giornata finalmente limpida.

Quanto al Senso Ji, voglio dire al santuario, è davvero roba da mercanti nel tempio. Dall’imbocco del viale che conduce ai monumenti fino alla struttura principale si contano ben 89 negozi - mi fanno notare con compiacimento le guide. Vendono soprattutto artigianato giapponese identitario, piccola oggettistica, Kimono, cibo. Perché lo shopping è religione, da queste parti; e nuovamente, senza imbarazzi di sorta.

All’ingresso del viale che conduce al tempio si ergono due grosse statue, lo sguardo terrifico: fungono da guardiani della religiosità del luogo, nei gompa tibetani la stessa funzione viene considerata protettrice. Poi, ecco statue di Bodhisattva nelle diverse posture, le mani atteggiate nei vari mudra (gesti rituali) di buon auspicio, anche loro simili a quelli del mondo tibetano. Altre statue raffiguranti dragoni simboleggiano il ciclo dell’acqua, e una volta di più si tratta di stilemi comuni all’architettura sincretica indo-buddhista: immagini simili sono scolpite sui torana lignei dei templi nepalesi o nella pietra vulcanica del Borobudur a Giava. Ma visto che so ancora poco del Giappone, scopro che i caratteri della loro scrittura, gli ideogrammi kanji, vengono dalla Cina – perchè tramite la Cina giunse qui il buddhismo stesso.

La statuina di cui si diceva, la deità che presiede all’intero Senso ji, non è ordinariamente accessibile: per mantenerla integra, mi spiegano, la si concede alla pubblica venerazione soltanto una volta all’anno, in occasione del grande festival locale, il Sansha Matsuri, nel mese di maggio. Rappresenta, mi dicono, la dea della pietà. O più esattamente la pietà in senso buddhista, la compassione virtù essenziale del Bodhisattva. Il Buddhismo arriva in Giappone nel 550 dopo Cristo, e prende ad erigere pagode. Che però qui restano inaccessibili al pubblico, a differenza di quanto accade, per esempio, in Nepal o in Birmania.

Al Senso Ji, tra la folla, i turisti sono legioni. Ed i kimono li affittano! Ecco perché ce ne sono così tanti. Affittano anche altri ammennicoli dell’abbigliamento tradizionale, agli orientali in genere ma anche ai giapponesi stessi; poi tutti sfilano in zona così mascherati, facendosi i selfie a vicenda. Il prezzo di un kimono per qualche ora è di 1700 yen, ossia 17 euro. Anche in Italia c’è gente che si maschera, nei contesti del turismo di massa: penso ai pietosi centurioni romani davanti ai monumenti della nostra capitale, che poi si fanno fotografare dai turisti. Ma i finti centurioni in cambio ne ottengono denaro. Qui a Tokyo le cose sono un po’ diverse. Qui, mascherati da antichi giapponesi, si fotografano tra loro.

Poi, dappertutto, ecco gli Omikuji, lotterie della fortuna dove la gente può esercitarsi in ciò per cui è venuta: la religione del do ut des, la richiesta di buona fortuna per i propri affari, il proprio amore, il proprio lavoro, le proprie finanze, i propri studi, i propri figli, la propria carriera e così via. Se il responso oracolare risulta negativo nessun problema, scherza una delle guide volontarie, visto che sembra non gli diano importanza neppure coloro che lo hanno consultato. Un po’ come succede con gli oroscopi sui giornali. Per me, dopo decenni di oriente, rimane incredibile come roba del genere possa trovar posto in un tempio. Speravo in qualcosa di più intelligente, non ci contavo ma un po’ ci speravo.

A fianco della grande pagoda, chiusa, un’iscrizione nel santuario shintoista ricorda i due pescatori che trovarono nel fiume la fatidica statuetta in legno. Kannon, così si chiama la locale dea della compassione. Pare continuassero a ripescarla, questa statuetta, e fu così che alla fine decisero di tenerla... L’iscrizione ricorda anche Hajino Matsuchi, il potente dell’epoca, che ne fece oggetto dell’adorazione popolare.

L’associazione che, due domeniche al mese, offre questo free walking tour nel costume locale è composta da oltre 100 persone, dice Yoshi Maruyama, ex bancario in un istituto di investimenti, 65 anni ben portati, oggi in pensione. Gli offerenti sono tutti volontari, di solito pensionati - appunto. Lo fanno per il gusto di incontrare degli stranieri, per spartire con loro qualcosa della propria cultura.

Dopo il tempio e il commiato dalle guide e dagli altri partecipanti, in un negozietto a due passi consumo la mia prima ciotola di ramen. Sono spaghetti di farina di grano, costano 850 yen (7 euro). Arrivano in brodo, a scelta con salsa di soia oppure solo salato. Certamente: una delle prime cose da imparare in Giappone è mangiare con le bacchette.

Nel Parco di Ueno a Tolyo