Fare il punto sul Nepal ed il terremoto che lo sconvolse nel 2015 è stato l’obiettivo di questa indagine, svolta tra novembre e dicembre 2018, a tre anni e mezzo dal sisma. Reportage parte seconda
Visito Durbar Square, il cuore di Kathmandu, a fine novembre 2018.
Sul Kashtamandap il terremoto dell’aprile 2015 ha picchiato duro. Dell’antichissimo edificio a pianta quadrangolare (costruzione originaria: 1143, dalla parola Kashtamandap deriva il nome stesso “Kathmandu”) non restano che macerie. Adesso al posto della struttura c’è un cantiere, opportunamente cintato (ma anche prima del sisma l’edificio cadeva a pezzi, la visita era già vietata). Il Kashtamandap verrà però ricostruito, approvano in coro i nepalesi che mi capita di incontrare lì davanti. C’è scritto anche su vari cartelli, che confermano le informazioni fornite dalla National Reconstruction Authority.
Subito di fronte registra il solito notevole afflusso di fedeli un piccolo santuario dedicato a Ganesh, presenza quasi consolatoria. Il terremoto non lo ha toccato. Bisogna girare attorno alla piccola struttura, toccarne una finestra, suonare una campanella. I fedeli fanno spesso un’offerta (puja). Sono le 18.30, è ormai buio, ma anche in questa zona c’è un casino memorabile. A pochi metri dai crolli, accanto al traffico motorizzato che incede spietato sull’impiantito di pietra, non manca di allargarsi un vivacissimo mercato della verdura. Un bazar che qui c’è sempre stato, a qualsiasi ora della giornata. Venditori acquattati per terra, lumini a olio nella sera, facce di esseri umani che spuntano dalla penombra. Ecco i mille colori delle derrate alimentari, le voci di trattative sussurrate od urlate, sporcate però dal frastuono delle macchine troppo vicine. Ecco uomini e donne intabarrati nei loro scialli. In questa stagione quando il sole scende fa freddo, ai 1500 metri di Kathmandu.
Kathmandu, Freak Street. Muratore al lavoro in un cantiere, dicembre 2018. Foto Renzo Garrone
Kathmandu Durbar Square, la ricostruzione della zona UNESCO
Il budget del progetto complessivo di recupero di Durbar Square, ossia il Post Disaster Recovery Framework, era stato fissato in 938 miliardi di rupie. Durante la Conferenza internazionale sulla Ricostruzione del Nepal, svoltasi dopo la seconda ondata di scosse del maggio 2015, la comunità internazionale aveva promesso di intervenire con la metà della somma (410 miliardi di rupie). La National Reconstruction Authority (NRA) dice ora che si tratta di completare, entro il 2020, quanto vi sia ancora da fare. Nel 2015 dopo la Conferenza sulla ricostruzione il governo aveva chiuso accordi operativi per 262 miliardi, inclusa una linea di credito pari a 75 miliardi provenienti dall’India. Se leviamo questi, dice ora il segretario NRA Pitambar Ghimire, “la mia Authority si ritrova con soli 187 miliardi a disposizione, meno della metà delle cifre promesse”. Si spera quindi intervengano altre ONG locali e internazionali a completare il buco del budget. Le trattative sono in corso.
Il Nepal, sempre in bilico tra Cina e India. Kathmandu Durbar Square, dicembre 2018. Foto Renzo Garrone
Il caso della linea di credito con l’India merita menzione particolare, perché siamo alle solite. Non è un sospetto, ma una certezza, che l’India persegua una spregiudicata politica di ingerenza nei suoi interventi in Nepal. Succedeva anche prima, col Congress al potere, ma si verifica ancora di più da quando in sella c’è il governo Modi col suo BJP. L’accordo stipulato nel settembre 2016 tra il Governo nepalese e la Exim Bank (che dipende dal Governo indiano) non si è mai materializzato. L’accordo puntava al recupero dei templi di Durbar Square, e comportava l’obbligo di utilizzo di un 75% di componenti indiane sul fronte di impianti, macchinari, equipaggiamento e servizi, più un altro 50% di componenti indiane per lavori accessori di ambito civile. Una specie di ricatto. Adesso il Governo nepalese chiede a Delhi aiuti più disinteressati. Chiede che i soldi vengano riconfermati, ovviamente, ma senza il vincolo del lavoro per le imprese indiane. Funzionerà? Ne dubito.
Basantapur
Ed ecco Basantapur. L’antico Palazzo Reale dei Malla comprendeva una pagoda iconica, affacciata su questa piazza. Una sorta di torre di guardia con 9 tetti spioventi, un simbolo. Crollata anch’essa come un castello di carte, aveva ragione il ragazzo della bottega di Tahiti.
Eppure anche questa piazza oggi, proprio come succedeva prima, è colma di rivenditori di souvenir e di oggetti religiosi. Sul lato sinistro, in fondo, della grande pagoda non restano che macerie. Ma da un pò sono arrivati i cinesi, che hanno messo in piedi per ricostruirla un progetto apposito col Governo nepalese. Il cantiere è allo stadio iniziale (ma quando lo rivisiterò prima di ripartire, a fine novembre, sarà già molto più avanti). I numerosi cartelli appesi alle recinzioni che lo delimitano (in nepali, mandarino ed inglese) raccontano l’operazione, con dettagli fotografici e proiezioni da studio tecnico. Il resto della zona sembra sia nelle condizioni precedenti al terremoto, compresa la dirimpettaia “Freak Street” (Jokchen Tole), che anzi appare tirata a lucido. Assai più frizzante che nelle mie ultime visite. Qui sono spuntati nuovi locali, baretti e ristoranti. Piccoli cantieri rimettono in piedi vecchi palazzi crollati. Mi spiegano che l’antisismico che il governo chiede adesso consiste fra l’altro in pali di acciaio rinforzato interni alle strutture, che prima non erano obbligatori. E che diligentemente fotografo.
Kathmandu Durbar Square, Basantapur. Cartelli al limitare del cantiere illustrano il progetto cinese di ricostruzione della iconica pagoda omonima, joint venture col governo nepalese. Foto Renzo Garrone
Zona sismica
Kathmandu e dintorni, in effetti, hanno conosciuto terremoti devastanti già nel 1934 e nel 1988, per citare solo i più recenti. Il bilancio dell’ultimo sisma, del 2015, noto anche come Gorkha Earthquake dal nome della città che ne fu l’epicentro, fu di circa 9000 morti e 22000 feriti, magnitudo tra 7.8 e i gli 8.1 scala Richter. L’ipocentro fu nel sottosuolo a 8 km di profondità. L’orario, mezzogiorno. Fortunatamente le scosse a Kathmandu furono di bassa intensità e colsero, vista l’ora, la gente all’aperto, altrimenti le vittime sarebbero state molte di più.
Ma il terremoto seminò distruzione anche altrove. Una valanga sull’Everest uccise 21 persone (il 25 Aprile 2015 viene ricordato per la sua mortalità record nella storia internazionale della montagna). Un’altra valanga nel Langtang, a nord di Kathmandu, zona di trekking, provocò la scomparsa di 250 persone.
Seguirono continue scosse di assestamento ad intervalli di 15–20 minuti. In un paese che detiene il record mondiale dei dislivelli, la paura delle valanghe crebbe esponenzialmente. Il 12 maggio 2015 di nuovo attorno a mezzogiorno una scossa di magnitudo 7.3 scala Richter colpì la zona di confine tra Nepal e Tibet, sulla strada tra Kathmandu e Kodari (un altro segmento della stessa strada prosegue poi verso la zona dell’Everest). Più di 200 persone ne rimasero uccise e 2500 ferite, per non contare i senzatetto. Quel confine è chiuso ancora oggi, tre anni e mezzo dopo.
Wikipedia (2018), fa i conti dei templi distrutti nella capitale e altrove. Oltre ai danni della Kathmandu Durbar Square, di cui s’è detto, si cita il crollo della Dharahara tower, datata 1832, crollo che provocò 180 morti (oggi solo un cumulo di macerie, la torre sorgeva in mezzo ad una zona di mercato, vicino ad Ason, tra le più affollate della città). Ma l’enciclopedia online scrive come anche il Taleju Mandir prospiciente Durbar Square fosse crollato parzialmente (ed oggi appare ricostruito). Stessa sorte, distruzione, per il Jaya Bageshwari Temple a Gaushala, tra l’aeroporto e Thamel, come per parti del tempio di Pashupatinath (il santuario induista più importante del paese, luogo UNESCO anch’esso, anch’esso oggi ricostruito). Erano stati danneggiati anche il primo tempio della Valle, ossia Swayambhunath, da cui si vede tutta la città (lo visiterò alla fine di novembre, oggi è perfettamente in ordine); ed il mitico Stupa di Boudhanath, che visiterò a metà novembre, che resta agibile e godibile. E’ vero invece che Rani Pokhari, il grande invaso riservato a scopi rituali in mezzo al traffico di Kathmandu, resta pericolante e non fruibile. Ma Rani Pokhari non era una priorità.
Boudanath, il grande stupa nel dicembre 2018. Luogo d'incontro dei buddhisti di tutto il mondo, questo monumento UNESCO aveva subito danni, ma ora appare integralmente recuperato. Foto Renzo Garrone
Rispetto a Patan, nei suoi conti dei templi distrutti, Wikipedia cita il Char Narayan Mandir, la statua di Yog Narendra Malla, e altri monumenti minori della Durbar Square. Menziona i gravi danni sofferti da altri paesi della Valle, per esempio dell’importante (perché molto visitato) Machhendranath Temple a Bungamati. E per Bhaktapur, cita la distruzione del Vatsala Durga Temple in Durbar Square, risalente al 17°secolo. Ma la notizia più inquietante di questa pagina online sul sisma riguarda l’opinione dello storico locale Prushottam Lochan Shrestha, che dichiarò dopo le scosse: "Abbiamo perso la maggior parte dei monumenti dichiarati World Heritage Sites a Kathmandu, Bhaktapur e Patan. Che non potranno essere recuperati alla loro condizione originaria”. Probabilmente per i restauratori più ortodossi, per i quali intendiamoci ho profondo rispetto, quei templi erano irrecuperabili. Ma tornando a visitarli dopo tre anni e mezzo, e trovandoli agibili, questi tempi io sono riuscito a godermeli, e come me ritengo sia successo a gran parte delle persone che si cimentano nella cosa. E’ pur vero che oggi, in tutto il mondo, a 9 turisti su 10, dovunque vadano, basta un selfie veloce davanti ai simboli più iconici di una qualsiasi località. E non voglio certo dire che si debba trascurare una corretta filologia artistica. Ma credo non si debba neppure cercare il pelo nell’uovo. L’atmosfera di questi luoghi rimane intensa, e poterli visitare senza pericolo è un valore in sé.
Cosa ha voluto dire il terremoto per i nepalesi
“Il terremoto del 2015 è stato devastante, senza dubbio” – puntualizza nel suo ufficio in Kalimati Mira Bhattarai, l’energica leader di ACP, un’impresa sociale del Fair Trade. “Thundikel, la grande parade ground nel cuore di Kathmandu, è stata a lungo piena di sfollati, di accampati senza casa. Tra i nostri produttori di artigianato, un centinaio di famiglie ha perso non solo la casa ma anche i telai e le materie prime che aveva pagato e su cui aveva investito. Ma per fortuna ci hanno aiutato in tantissimi, da tutto il mondo, e questo è stato psicologicamente di grande aiuto. Come organizzazione abbiamo deciso di investire gli aiuti ricevuti previe visite specifiche a chi si era detto colpito, per essere sicuri di spendere correttamente. Ed è servito, perché qualcuno aveva dichiarato d’esser stata vittima diretta del terremoto, ma non era vero… Ad ACP ci siamo rimboccati le maniche e siamo andati a casa loro. Del resto le nostre artigiane lavorano perlopiù a domicilio, come avrebbero potuto continuare a lavorare? Così abbiamo costruito dei workshops periferici, dove un centinaio di persone in difficoltà che abitavano nei pressi potessero recarsi... Ma molti sono ancora fuori casa. Prendi la signora della copertina del tuo ultimo libro sugli artigiani nepalesi” – Meera mi mostra il libro. “Lei è una di questi. Qui ad ACP per fortuna l’edificio principale non ha riportato grossi problemi, giusto qualche crepa. Dalla municipalità di Bolzano, in Italia, sono arrivati 15.000 euro che abbiamo speso rinsaldando la struttura. Altri donatori ci hanno aiutato a rilanciare il nostro marketing. Però, effettivamente, il governo non ha ancora consegnato alle famiglie colpite tutte le 300.000 rupie, e sono passati ormai 3 anni e mezzo. L’India? Beh, dopo il sisma altro che aiuti: per una diatriba sulla nostra nuova Costituzione, che veniva riscritta in quei mesi ed in cui l’India pretendeva di mettere becco, hanno chiuso indefinitamente i posti di confine da cui dipendiamo interamente per gli approvvigionamenti. Sono stati riaperti solo dopo molto tempo. Bella solidarietà. In realtà, penso che il Nepal stia ancora pagando le conseguenze del terremoto” – conclude la Bhattarai.
L’episodio fu veramente vergognoso: 6 mesi di blocco dei confini tra India e Nepal proprio nel momento del bisogno! Questo ha accresciuto il sentimento negativo, quel certo pregiudizio dei nepalesi nei confronti dell’India, che spesso appare non privo di fondamento.
La situazione a Patan
Visito un’altra delle grandi Durbar Squares della Valle, quella di Lalitpur, o Patan. Qui, un paio di grandi templi di pietra sono stati ricostruiti, mentre nel cantiere di un terzo (il Khrishna Mandir) fervono i lavori. La piazza, pur danneggiata, appare oggi perfettamente visitabile. Anche i Musei del Palazzo Reale sono di nuovo in ordine ed accessibili.
Patan, cantiere in Durbar Square, dicembre 2018. Il post-terremoto ha offerto lavoro a decine di migliaia di manovali provenienti dalle montagne. Foto Renzo Garrone
Se la passa peggio, ad un km di distanza, il Kumbeshwor Mandir (risalente al 1392). Svettante nel complesso omonimo, cosparso di statue in pietra scolpite, Kumbeshwor era una delle pagode nepalesi dai tratti architettonici straordinari (5 tetti spioventi). Il terremoto dell'aprile 2015 lo ha decapitato, ma lo stanno ricostruendo (con aiuti giapponesi). Nel frattempo tutt'attorno sono spuntati cantieri privati, case nuove sostituiscono le precedenti, i muratori sono al lavoro. Qui a Patan la netta sensazione è che l'edilizia civile della ricostruzione, soprattutto quella privata, stia dando una grossa mano alla ripresa. E che, aiuti dello stato o meno, antisismico o meno, i nepalesi che hanno potuto si siano mossi nel ricostruire per conto proprio.
“Molta gente sta ancora soffrendo, non avendo potuto risistemare casa sua” - dice Kiran Khadgi, direttore di una scuola locale per bambini non abbienti. “E questo avviene sempre per problemi di soldi. Le 300.000 rupie degli aiuti governativi non sarebbero bastate neppure prima del terremoto, ma con l’obbligo dell’antisismico, introdotto dopo il terremoto, la ricostruzione costa ancora di più. D’altra parte se non riesci a produrre i documenti giusti non accedi ai fondi pubblici, e questo capita a tanti nepalesi”.
Khadgi abita proprio nella piazza di Kumbeshwor, dove sorgeva il tempio. “Il fallimento governativo è clamoroso”, si indigna. Persino il Palazzo del Parlamento, il monumentale Singha Durbar che risale alla dinastia dei Rana, non è stato ancora ricostruito: non hanno neppure cominciato. La colpa principale è della corruzione”. (I giornali annunciano l’inizio di questi lavori proprio adesso, a dicembre 2019).
(2-continua)