Fare il punto sul Nepal ed il terremoto che lo sconvolse nel 2015 è stato l’obiettivo di questa indagine, svolta tra novembre e dicembre 2018, a tre anni e mezzo dal sisma. Reportage parte prima
Torno in Nepal dopo vari anni. L’ultima volta era stata prima del terremoto dell’aprile 2015. Ma la prima, nel lontano 1976…
Stavolta arrivo alla fine di novembre, nel cuore della stagione secca, atterrando a Kathmandu a metà giornata. Ed anche se la città appare avvolta in una slavata foschia (che qui quando non piove da oltre due mesi è la luce standard del primo pomeriggio, il resto lo fa lo smog), si vede che il tempo è bello.
La prima impressione è che le strade dal Tribhuvan Airport fino al quartiere di Thamel, 7/8 km precedentemente tortuosi, siano più larghe ed ordinate di quanto ricordassi. Nel tragitto in taxi fino al mio albergo apprendo che c’entra Baburam Bhattarai, Presidente del Consiglio nel periodo post-terremoto, l’unico che abbia avuto il coraggio di portare a termine un proposito che molti suoi predecessori avevano annunciato senza combinare poi nulla.Me lo spiega Tilak Lama, che viene a prendermi in aeroporto. Un imprenditore illuminato, proveniente da un villaggio montano a sudest di Kathmandu. Con il terremoto erano crollati numerosi dei templi che si ergevano nelle famose piazze medievali un po’ in tutta la Valle di Kathmandu. Ma dalle frammentarie informazioni ricevute mi era stato difficile, per non dire impossibile, ricostruire quali essi fossero con maggiore precisione. Tutti a stracciarsi le vesti, i commentatori: povera gente, povera arte. Nessuno però che argomentasse in modo circostanziato in proposito, nessuna vera mappatura post-terremoto mi era parsa disponibile. Nessuno che avesse spiegato, per esempio, se il borgo di Panauti fosse ancora in piedi o se la gloriosa città di Kirtipur fosse stata rasa al suolo. Per capire meglio dovevo venire di persona. Percorrendo adesso le strade del centro, tre anni e mezzo dopo l’evento, capisco che i crolli degli edifici civili (di solito niente di che dal punto di vista architettonico), sono serviti a liberare spazio. In una Kathmandu sovraffollata, invasa dai migranti dalle montagne e dal traffico veicolare, sbarazzarsene è stato funzionale, se non altro, all’allargamento delle strade. I nepalesi, pragmatici, dal giorno dopo avevano rimosso le macerie, colto la palla al balzo per far fuori alcuni ruderi che minacciavano di crollare anche prima, e preso già a ricostruire. Adesso, visibilmente, la città è di nuovo in piedi. Quasi tutta. Tanti i palazzi nuovi, tanti i cantieri che lavorano. Lo stesso, mi dicono, stanno facendo coi templi.
Del resto, solo una zona limitata era stata colpita, il resto del paese è rimasto immune.
“14 distretti” - precisa Hari Krishna Dhital, social worker che lavora con la ong New SADLE. “Tutti nel Nepal centrale. I più danneggiati sono quelli di Kathmandu, Lalitpur (Patan), Bhaktapur, Sindupalchowk, Kavre, Dhading, Gorkha e Nuwakot. In particolare questi ultimi due”. Purtroppo, proprio qui sorgono i centri storici culla della civiltà nepalese. E questo è un primo punto: capire se le informazioni post-sisma, molte tra le quali riarrangiate dall’estero, che al tempo descrissero il paese come un cumulo di macerie salvo poi abbandonarlo al suo destino senza seguire gli sviluppi dell’evento, fossero realistiche oppure no.
Patan Durbar Square, dicembre 2018. Agibilità ormai ripristinata, quasi dappertutto. Foto Renzo Garrone
Inoltre mi interessa capire cosa da allora sia davvero stato fatto.Un terremoto fa notizia, che in Nepal diventa automaticamente una notizia esotica. Ma quel che succede dopo, mesi dopo, ai giornali importa di solito molto meno. Tra crolli e ricostruzioni, la stima che mi porto dietro parla della scomparsa di un 30% dei grandi templi.
Ed alla fine del tragitto in taxi ecco Thamel, il cuore del turismo. Il fatto che la zona sia stata in buona parte pedonalizzata è una prima gradevole sorpresa. La seconda è come oggi appaia vitale, vivace. Vedo turisti di tutto il mondo, come prima e più di prima. Vedo legioni di nepalesi che lavorano. Vedo esercizi commerciali, ed anche questi sono molti più di prima, e tantissimi sono quelli nuovi. Non è bella, la zona turistica di Thamel, e del resto non lo è mai stata; ma è di nuovo dinamica, affollatissima. Come e meglio che ai bei tempi. Questo davvero non me lo aspettavo. L’immagine prevalente del Nepal, che mi ero costruito da solo, era opposta. Mi attendevo un luogo depresso, piegato dagli eventi degli ultimi decenni, prima dalla guerra civile, poi dal terremoto. E invece la ripresa è evidente. Eccolo qui, il Nepal moderno dove tutti passano. Utile ai visitatori come luogo di incontro e centro-servizi. Ed utile ai nepalesi come laboratorio di idee, fonte di lavoro, vetrina di quanto si produce e si promette. Animano questo grande progetto in movimento decine di migliaia di turisti ogni giorno, internazionali e locali. Turismo che, del nostro tempo, è davvero lo specchio ed una incredibile driving force.
Vado a vedere i vecchi quartieri
La sera vado a vedere i vecchi quartieri, che avevo esplorato a fondo più volte fin dai tempi (1994) in cui su questo paese scrissi un guida per il Touring Club Italiano. Esco a piedi da Thamel verso il quartiere di Tahiti, per le vie strettissime del centro storico (una Tahiti che non è mai assomigliata all’isola polinesiana, né tantomeno le assomiglia adesso…). Ma dove Thamel cede il passo al centro storico, ecco il traffico feroce da cui ero stato messo in guardia tramite vari turisti di ritorno. L’effetto è paradossale, un tumulto. Riparo allora momentaneamente in una bottega di abbigliamento sportivo (nella Kathmandu turistica, un negozio su 5 vende roba del genere). Compero un pile da 800 rupie (6 euro) - questi pile onnipresenti li fanno in Naya Bazar, non distante, nel nord della città. Scherzo col ragazzo che li vende. Il discorso poi scivola sul terremoto. Lui dice che Durbar Square, l’epicentro UNESCO di Kathmandu, è stata quasi rasa al suolo. Ma che ti fanno lo stesso pagare le 1000 rupie (7,5 euro) di accesso al sito monumentale, “anche se non c’è niente da vedere”. Bisogna recarsi, aggiunge lui, a Patan, a Bhaktapur, “che sono ancora in piedi”.
Proseguo dunque fino a Durbar Square, distante a malapena un paio di km. Per farlo bisogna però fendere il traffico nella sera, che appena fuori dall’area turistica soffoca completamente stradine del tutto inadatte a qualsivoglia motorizzazione. Sarebbe come pretendere di girare in macchina per i vicoli di Genova. Ebbene: a Kathmandu ci riescono.Dopo un duello fisico con la folla, che si muove veloce assieme ad auto e moto nel semibuio, zigzagando da un capo all’altro della strada, e respirando fiele, in 20 minuti raggiungo la zona circoscritta quale sito UNESCO. Ecco Makhan Tole con la grande mole del Taleju Mandir, un tempio a pagoda possente ed evocativo, che da questa prospettiva appare ancora più imponente.
Kathmandu, centro storico, dicembre 2018. L'entrata di Durbar Square arrivando da Makhan Tole. Foto Renzo Garrone
Tutta la Kathmandu sotto egida UNESCO risale grosso modo a un periodo che va dal 1220, alla nostra epoca rinascimentale, fino al termine del 1600. Un’epoca in cui la dinastia newar dei Malla cosparse la Valle di pagode in mattoni e legno, intagliandone le decorazioni in modo voluttuoso. Proponendo ai fedeli un incredibile intreccio di buddhismo ed induismo (si trattava di una società di contadini servi della gleba che bisognava stupire, e per stupirli si raccontavano loro mitologie meravigliose). Il racconto di questo sincretismo si dipana in Nepal in immagini quasi sempre scolpite: sui sostegni lignei dei tetti delle pagode, sulle architravi, nei portali, nei colonnati, nelle mitiche finestre anguste dalle quali abbiamo visto, in migliaia di foto dagli anni 60 in poi, piccoli nepalesi affacciarsi sulla strada sottostante. Ma anche nella pietra dei chaitya, i santuari a misura d’uomo raffiguranti Shiva, Buddha, Vishnu e le loro manifestazioni innumerevoli.
Attraverso alterne vicende storiche, insomma, i sovrani Malla finanziarono le manifestazioni artistiche in tutta la Valle (pagode, palazzi, intagli, pitture). Erano sovrani molto litigiosi, le tre città principali Kathmandu Patan e Bhaktapur rimasero in perenne disputa reciproca. Ma le arti prosperavano proprio grazie a queste rivalità. I Malla inoltre volevano essere identificati con la divinità, ci tenevano li si considerasse incarnazione di Vishnu. Quindi costruivano e decoravano a più non posso.
La Durbar Square di Kathmandu e le politiche della ricostruzione
Superata la statua in pietra dipinta di Kalo Bhairab, terrifica e gigantesca, entro in Durbar Square, cuore della capitale. Che non consiste in una piazza soltanto: si tratta piuttosto di un complesso di slarghi e strade comunicanti tra loro. Mi imbatto subito in alcuni edifici e padiglioni minori, chiaramente pericolanti, puntellati con grandi stampelle di legno. Alla mia sinistra risulta puntellato anche l’antico Palazzo Reale dei Malla (Hanuman Dhoka), vasto complesso ora chiuso alla visita.
Proseguo per altri 300 metri fino al tempio di Shiva e Parvati, puntellato anch’esso, ma comunque in piedi. Le figure degli dei in questione, praticamente dei pupazzi, si sporgono (come prima) dalla classica finestra nepalese di legno intarsiato. Sembra salutino tuttora una folla immaginaria, riunita sotto di loro.
In questa piazza anche altre strutture sono crollate completamente. Sulla destra noto il Maju Dega. Ed anche qui gli edifici che hanno preso un brutta botta vengono tenuti in piedi da enormi stampelloni in legno di sal (shorea robusta). Sembra attendano un intervento, ma i lavori non sono neppure cominciati. Al posto degli edifici crollati, resta lo spazio cintato, qualche piccolo cantiere. Non è venuto giù proprio tutto, in Durbar Square, ma i danni complessivi paiono davvero ingenti.
Poco più avanti ecco il Kumari Ghar, il Palazzo della Kumari, la dea Bambina del Nepal dei re, un mito che nel paese laico di oggi sta svanendo – nonostante l’istituzione esista ancora, non solo a Kathmandu ma anche altrove (a Bhaktapur per esempio). Il Kumari Ghar ospita una ragazzina vergine. Rimane lei fino alle prime mestruazioni, poi viene sostituita con un’altra “dea bambina”. Mi avevano detto che il Palazzo era chiuso alla visita. Non è esatto: lo hanno riaperto, vi si può accedere, anche se nel cortile interno zeppo di finestre intagliate, ridipinte di un nero brillante, ricompaiono i famigerati stampelloni. All’interno, una guida turistica racconta storia dell’arte a due visitatori dell’est europeo.
Ricostruisco la situazione ricorrendo a una serie di articoli del Kathmandu Post, quotidiano in inglese della capitale. I lavori sul Maju Dega, per esempio, hanno preso il via ufficialmente il 29 ottobre 2018. Soltanto? Soltanto. Lo storico tempio fu fatto costruire da Riddhi Lakshmi, una Regina Madre, sotto il sovrano Bhupatindra Malla, nel 1692. Pagoda con tre tetti spioventi ed innalzata su un piedistallo cui si accede tramite nove gradoni di mattoni, il Maju Dega divenne celebre nell’era hippy degli anni ’70, quando Kathmandu era la meta finale della “strada” per l’oriente percorsa dai giovani d’occidente. Ricordo distintamente quanti ragazzi di tutto il mondo sedevano allora sui gradoni, mischiandosi coi nepalesi. Nel 1976 fui tra questi, avevo 19 anni - anche se la nomea di hippy mi è sempre stata stretta. Posso dire che a me interessava viaggiare, fare amicizia, parlare con tutti, capire. Ebbene nell’aprile 2015 anche questo mito dell’epoca freak si sgretolò senza pietà.
Kathmandu, centro storico. Classico tempio a pagoda-cum-cantiere nei pressi di Durbar Square. Foto Renzo Garrone
Il governo ha affidato il post-terremoto ad una National Reconstruction Authority (NRA). Nella sola Durbar Square di Kathmandu sono 11 i monumenti crollati o seriamente danneggiati. Per la ricostruzione è stato lanciato un programma apposito sotto l’ombrello dell’Hanuman Dhoka Durbar Square Conservation Program, l’organismo incaricato di gestire il complesso sotto egida UNESCO.
Il sindaco di Kathmandu, Bidya Sundar Shakya, dice che nel caso del Maju Dega i lavori finiranno nell’ottobre del 2020, e che la municipalità userà fondi propri visto che quelli che erano stati promessi continuano a non arrivare. Annota come il recupero di alcuni monumenti sia partito (anche se con molto ritardo) grazie effettivamente ad aiuti stranieri. Come quelli dei cinesi a Basantapur, o quelli americani per il Gaddi Baithak, un Palazzo bianco in stile neoclassico che fa angolo sempre sulla stessa piazza. Ma il sindaco sottolinea pure come la sua amministrazione, la Kathmandu Metropolitan City, non sia rimasta con le mani in mano. Ad ottobre 2018 ha infatti varato la ricostruzione del Kashtamandap (di cui parlo dopo), con uno stanziamento di 50 milioni di rupie (385.000 euro), dopo da gli iniziali 5 milioni per l’abbrivio dei lavori stanziati subito dopo il sisma.