Il fatto

Nella notte del 3 dicembre 1984, 40 tonnellate di isocianato di metile, un gas letale usato per fabbricare pesticidi, fuoriescono dai serbatoi della Union Carbide a Bhopal, in India. La Union Carbide è la filiale locale di una importante multinazionale chimica, con sede principale negli Stati Uniti. Saranno 3828 i decessi immediati, secondo le cifre ufficiali, ma si stimano in oltre 20.000 le morti avvenute negli anni seguenti per le intossicazioni.

La fabbrica della Union Carbide ai tempi del disastro. Foto Raghu Rai Foundation

 

Ma il disastro non si consuma solo quella notte: anche la falda acquifera della zona si rivela pesantemente contaminata, e la cosa comincia ben prima del dicembre 1984 e non finisce dopo l’incidente: dai tre enormi serbatoi delle acque di scarto delle lavorazioni nel terreno dell’impianto, coibentati non adeguatamente, fuoriesce negli anni una gran quantità di liquidi velenosi. La multinazionale aveva fatto le cose al risparmio, e senza tenere conto dell’impatto delle piogge monsoniche.

Fra poco, il 3 dicembre 2024, saranno 40 anni dalla tragedia. Il numero totale delle persone duramente esposte alla contaminazione è stimato oggi in 570.000. Più di 120.000 soffre attualmente di problemi di salute assortiti, perdita dell’appetito, ipertensione, diabete, menopausa prematura, malattie della pelle, tumori.

Nel periodo del Coronavirus, il tasso di ammalati è risultato essere sensibilmente più alto della media indiana.

L’indagine

A 40 anni dalla tragedia, sono andato sul posto per capire quale sia la situazione. Ho girato per Bhopal per capire di che città si tratti: è una grande città da 2 milioni di persone, capoluogo del grande stato del Madhya Pradesh. Nel nord il centro antico è di impronta musulmana, pieno di bazar e di moschee. Poi ci sono due laghi amplissimi che regalano respiro all’intera zona. E a sud di questi si allarga la Bhopal moderna e residenziale, che cresce vorticosamente come tutta l’India urbana.

Ma attorno alla ex fabbrica della Union Carbide i quartieri restano miserrimi. Li ho attraversati. Oltre un muraglione anonimo sono entrato in una sorta di parco incolto che conduce ai ruderi, cintati e impenetrabili, della fabbrica stessa – il cuore del mostro. Fuori da lì, tutto attorno, ho parlato con la gente.

Bhopal, la madrassa in moschea

 

Ho frequentato e intervistato gli animatori del Sambhavna Trust, una ONG locale, principale attore di una resilienza di base (assistenza medica e difesa legale) contro la clamorosa ingiustizia che queste persone hanno dovuto sopportare, e le cui conseguenze la comunità ancora subisce.

Responsabilità e compensazioni alle vittime: l’infinita battaglia legale

Negli anni una parte delle vittime ha ricevuto compensazioni, ma assolutamente inadeguate, sia in termini di numero dei risarciti, sia sul piano delle cifre, sia considerando il fatto che queste persone per lo più sono malati cronici e che quindi il loro bisogno di assistenza è continuo. L’incidenza sulle sorti della vertenza da parte del governo indiano a guida Partito del Congresso, che si era costituito parte civile dopo l‘incidente, è risultata a conti fatti insufficiente e inadeguata. Le responsabilità sono rimbalzate di proprietà in proprietà – la Union Carbide è stata assorbita negli anni dal gigante USA Dow Chemical – e nessuno dei referenti legali dell’epoca nell’impianto, colpevoli del disastro, è stato mai perseguito né chiamato a risponderne. Nel frattempo, con il cambio di governo a New Delhi, ormai dal 2014, la situazione è peggiorata: Dow Chemical, d’altra parte, è tra i finanziatori del partito di Modi. 

Un giro nel quartiere attorno all’ex fabbrica

Per arrivare alla Sambhavna Clinic, prendo un taxi che attraversa il centro e si infila su per Berasia Road, arteria trafficatissima. Più si procede più la zona si fa miserabile, con l’eccezione di alcuni scintillanti distributori di benzina. Lungo la strada vedo allineati decine di gommisti, e un gran numero di officine meccaniche. Per giungere da qui alla clinica bisogna imboccare una serie di viuzze interne, ma nemmeno Google Maps riesce a trovare l’indirizzo, un paio di volte l’autista smarrisce la via, finisce in vicoli senza sbocco. Nel frattempo, le condizioni del lavoro e dell’esistenza tutto attorno segnalano problemi atavici: il taxi solca quartieri da incubo, poveri manovali che trasportano grandi pesi sulle spalle per strade cieche piene di saracinesce abbassate, e spazzatura in ogni dove.

Uscendo dalla Clinica un pò rinfrancato, più tardi, decido di fare un giro nell’area attorno all’ex fabbrica. Volevo ‘sentire’ quanto resti viva quella catastrofe nella memoria locale, e quanto inquinamento permanga sul campo.

Attorno alla ex fabbrica

 

Non mi aspettavo un degrado di questo livello. La stradina che imbocco conduce ad un torrentaccio che serpeggia tra le case, invaso dalla spazzatura. Il colore dell’acqua parla di morte batteriologica. Proseguo con preoccupazione, valico un ponticello, e finalmente esco da questo fetido slum.

Non che adesso siano rose e fiori, ma la strada più prossima alla fabbrica è – per certi standard indiani, e parliamo della stessa India del boom economico odierno – quasi normale. Il quartiere che fu della Union Carbide è semplicemente molto popolato, tutte casupole basse ed abitate, tutta gente che lavora, anche se la zona resta la stessa che fu investita dall’isocianato di metile, dove la falda acquifera è compromessa.

Ho preso un risciò, che mi ha scarrozzato in giro, fin sullo stradone che descrive i confini della ex fabbrica. Il guidatore, un musulmano secco e taciturno, all’inizio diffidente, ha voluto prendessimo un tè a un baracchino sulla via. Dopo averlo condiviso, seduti sul suo mezzo uno di fronte all’altro, mi ha portato a vedere un monumento alla tragedia, una scultura dimenticata e davvero brutta, eretta in un angolo dalla gente del posto. Alla fine ho pagato una tariffa giusta, leggi esigua, per il trasporto che mi ha offerto: mi è parso il suo modo di rispettare la mia persona e quanto stavo facendo.

Il tè con il guidatore di risciò

 

La storia della Sambhavna Clinic

Davanti al compito gigantesco di curare 120.000 malati cronici, quasi tutti poveri, che ben poco sostegno ricevono dalla sanità pubblica (quasi tutte le cure prestate sono state solo sintomatiche), cui si aggiungono altre 100.000 persone (secondo le s stime) che negli anni hanno bevuto l’acqua contaminata della falda, un gruppo di operatori sociali ed attivisti fonda nel 1996 – 12 anni dopo il disastro – una clinica molto vicino alla vecchia fabbrica.

La Sambhavna Clinic

 

La Sambhavna Clinic utilizza un approccio scientifico di cura effettiva a molteplici livelli ma si occupa anche sistematicamente di raccolta dati. Le tecniche della medicina moderna sono affiancate dall’erboristeria olistica tradizionale indiana, l’ajurveda e dal sostegno dello yoga.

I pazienti che si presentano alla clinica vengono presi in carico solo se sono in grado di dimostrare che all’epoca abitavano nella zona (e molti vi abitano ancora). Allora vengono visitati, registrati e poi ricevono un libretto sanitario originale, che riporta le loro condizioni di salute di partenza e poi ne registra i progressi. I malati cronici ritornano quindi con regolarità.

La Sambhavna Clinic impiega 60 persone, tra medici, infermieri, personale vario e social workers attivi nella comunità colpita. L’approccio integrato alla cura ha offerto, è dimostrato, buoni risultati: in numerosi casi la tossicità può essere espulsa dall’organismo. 

La clinica vive di donazioni dei singoli, avendo rifiutato da sempre, per evitare conflitti di interesse, sia il denaro pubblico che quello di aziende private: ma il governo da un paio d’anni ha sospeso la loro abilitazione a ricevere fondi dall’estero.

 

Khaleed ul Zama Khan

Ex dipendente pubblico in pensione, Khaleed ul Zama Khan abita in questa zona, e nel 1984 c’era. “Ero a casa e stavo dormendo” – racconta – scesi in strada e sentii il gas al livello del suolo. Ebbi l’idea di prendere un pezzo di tessuto, di inzupparlo d’acqua e di mettermelo sul volto, e così parzialmente protetto camminai, in mezzo alla gente che fuggiva. Sentii aumentare la palpitazione degli occhi, la gola divenne secca e bruciante, respirando sentivo la pesantezza dell’aria. Cercai di coprirmi il più possibile e camminai lentamente, mentre la gente correva tutto attorno a me, parecchi svenivano. Tornai dalla mia famiglia, moglie e figli, e in fretta e furia scappammo tutti in una macchina, per trasferirci a un’ora d’auto da Bhopal. Ma l’auto si trovava a circa tre km dal luogo del disastro. Quella notte alle 2.30 suonarono le sirene di allarme, e nei due giorni successivi la mia casa rimase invasa dal gas”.

Khaleed ul Zama Khan

 

Secondo te, il gas di quella notte è stato responsabile del deterioramento della tua salute?

Posso dirti che prima del 1984 giocavo a hockey con soddisfazione, dopo dovetti smettere. Ingrassai notevolmente, i miei movimenti divennero impediti, aumentò la pressione, e cominciai ad avere problemi di digestione. Per un buon 50%, quello che ho è colpa del gas. Grazie a Dio ho avuto l’idea di coprirmi naso e bocca e viso con uno straccio bagnato, mi sono salvato per questo - non l’avessi fatto sarai morto di sicuro. Coloro che senza protezione cercavano di fuggire di corsa tutto attorno a me inalarono di più il veleno.

Come arrivi alla Sambhavna Clinic?

Da amici, molti anni dopo, seppi della clinica, un posto dove si potevano avere cure e medicine per poco. Per 12 anni avevo preso medicine da un ospedale statale, le ottenevo gratuitamente. Alla Sambhavna vengo invece una volta al mese. Prendo rimedi ajurvedici, gratis. I problemi per cui mi sto curando riguardano il cuore, il sovrappeso, la digestione, e questo ginocchio che si gonfia ed è peggiorato con l’età

 

Parla Satinath Sarangi, della Sambhavna Clinic

“Vengo da un paese dell’interno del Madhya Pradesh, e sono arrivato a Bhopal subito dopo il disastro di 40 anni fa” – dice Satinath Sarangi, detto Sathyu, 70 anni. “Ero uno studente universitario, seppi dalla radio di Bhopal, volli venire qui, e mi coinvolsi: possedevo rudimenti di scienza e tecnologia e sapevo l’inglese, pensai che potevo essere utile, rimasi e smisi di studiare. L’emergenza del momento era la salute della gente, ma si trattava anche di offrire aiuto nelle varie cause legali legate al disastro. Fondamentale fu l’incontro con un tossicologo tedesco, Max Daunderer. Il dottor Max aveva scoperto che con una iniezione endovenosa di tiosolfato di sodio (NaTS) le vittime riuscivano ad espellere i veleni tramite le urine. Ma la Union Carbide non voleva che questa medicina fosse usata, istruita dai suoi legali nell’adozione di una linea difensiva secondo la quale potevano essere ammessi solo danni locali, esterni, nei contatti diretti tra il gas e il corpo. In altre parole, l’azienda poteva riconoscere che il gas avesse intaccato occhi e polmoni delle vittime, tramite inalazione, ma non che questo avesse raggiunto il sistema circolatorio, ed il sangue. Anche se era chiaro come l’isocianato di metile fosse stato assorbito dall’intero sistema corporeo delle vittime.

Satinath Sarangi, detto Sathyu, fondatore e direttore del Sambhavna Trust

 

Come funziona questa sostanza iniettabile?

Con una iniezione di tiosolfato di sodio si poteva trasformare la componente velenosa in un composto diverso, in cui il cianuro non è più tossico e può essere espulso con le urine. Sei mesi dopo il disastro fondammo una prima clinica, la People’s Health Center. Chiesi ad amici che lavoravano nella sanità, a Calcutta, a Bombay, in Kerala, di venire a Bhopal: avevamo la formula di quell’iniezione, che risolveva almeno in parte le cose, e la portammo in tribunale. La Corte decretò che potevamo usare il medicinale. Così cominciammo, con questi dottori volontari, a praticare iniezioni di tiosolfato di sodio, ed al contempo a registrarne i benefici ottenuti dai malati. La gente respirava meglio, l’appetito ritornava, l’affaticamento diminuiva. Tutto questo lo vedemmo succedere direttamente, e lo misurammo tecnicamente. Misurammo come cambiavano le cose il primo, il terzo, il settimo giorno. Per esempio la capacità polmonare.

Ma dopo 17 giorni di rilevazioni sulle somministrazioni praticate a 1300 persone per una settimana, la polizia fece irruzione nella clinica, nel cuore della notte. Io dormivo lì, perché dovevo preparare varie cose per il giorno seguente. Mi arrestarono, con l’accusa che stessi per attentare alla vita di alcuni funzionari governativi locali. Era un pretesto: ma rimasi in galera per tre settimane. E non solo io, quasi tutti noi fummo arrestati, dottori e volontari. Poi piano piano ci rilasciarono, io fui l’ultimo a uscire…

Ma nel frattempo la clinica era stata rasa al suolo: il nostro esperimento era durato solo 17 giorni. Peggio, tutto il materiale di documentazione dei fatti che avevamo raccolto era sparito. Volevamo convincere le autorità del diritto a questa iniezione, ma avevamo perso tutti i dati di ricerca...

 

Ma com’è possibile che la UC arrivasse a questi punti? L’incidente di Bhopal fu una catastrofe dai caratteri oggettivi… Cosa temevano?

La risposta fu questa, per via della loro religione (sorriso). La loro religione, il loro dio, consiste semplicemente nella massimizzazione del profitto. Dicendo la verità e accettando che i danni del gas si stavano rivelando multipli e sistemici, il denaro da distribuire in compensazioni alle vittime sarebbe stato molto maggiore di quanto prevedesse l’assicurazione di cui la multinazionale disponeva.

Comunque, 15 giorni dopo il disastro, la UC fece arrivare dagli USA i suoi legali, i suoi esperti medici. Uno pneumologo di nome Hans Weill (Pneumologia, Tulane Medical Center, New Orleans, Louisiana), poi Thomas L. Petty (Facoltà di Medicina, University of Colorado) e un terzo dottore, Peter Halberg (Professore di Clinica Ofthalmologica, New York Medical College). I tre indissero subito una conferenza stampa, in cui dichiararono che avevano già visto le vittime (cosa non vera) le quali sarebbero state presto molto meglio.

Un breve commento su di che tipo di esperti si trattava è necessario. L’azienda americana Johns Manville era coinvolta in una causa sull’amianto, negli USA, dove le vittime avevano sviluppato asbestosi, una malattia polmonare cronica conseguente all'inalazione di fibre di amianto, detto anche asbesto, e mesoteliomi un tumore associato all'esposizione all'amianto. Ebbene, Weill aveva ricevuto denaro dalla Quebec Asbestos Mining Association di cui la Johns Manville era membro.

Era stato pescato a ritoccare le radiografie dei polmoni dei pazienti e per questo aveva ricevuto una diffida del giudice. Weill apparteneva alla stessa chiesa degli altri, quella della religione del profitto (altro sorriso).

Uno dei problemi restava il rifiuto della UC di fornire le informazioni su cosa implicava l’esposizione all’isocianato di metile. Dissero che si trattava di segreto industriale. In assenza di dati scientifici i dottori sostennero che si poteva optare solo per cure sintomatiche, le uniche possibili vista l’indisponibilità di informazioni scientifiche più approfondite. E così si andò avanti per molto tempo.

Dieci anni dopo

Dieci anni dopo il disastro, cioè nel 1994, pensammo di valutare che risultati di cura fossero stati ottenuti, e preparammo un Rapporto. Perché purtroppo non c’era nessuno che fosse uscito in maniera stabile dai suoi problemi di salute. Erano stati somministrati antidolorifici in quantità enormi, moltissimi steroidi (derivati cortisonici), moltissimi psicofarmaci, e antibiotici. Talmente tanti che stimammo come tra il 40 e il 50 % delle medicine si fossero rivelate non necessarie, dannose, o entrambe le cose. A quel punto, triste ironia, ben 12 multinazionali farmaceutiche distribuivano i loro prodotti a Bhopal, ed una di queste aziende apparteneva allo stesso proprietario della Union Carbide... La gente di Bhopal venne imbottita di farmaci, prova a chieder loro quante medicine hanno preso! Non grammi, chili!. Per cui, rivolti ai medici e alle autorità locali, chiedemmo, ma cosa state facendo? - mostrando loro il nostro Rapporto.

Nello stesso periodo ideammo un piano organico che offrisse qualche possibilità alternativa. La parola Sambhavna vuol dire appunto possibilità, la possibilità che esistessero altre vie d’uscita dall’impasse. L’idea fu quella di un’altra clinica, che svolgesse un compito più articolato, molti anni dopo la prima. 

Ma avremmo rifiutato i fondi di aziende private e quelli pubblici dello stato. Tramite il tam-tam sulla questione, fu pubblicato sul Guardian a Londra un appello, per l’apertura di una clinica a Bhopal. Il responso fu stupefacente, ottenemmo talmente tanto denaro che riuscimmo nel 1996, a 12 anni dalla catastrofe, a partire con la Sambhavna Clinic. Puntammo su tutto ciò che il sistema statale non aveva contemplato. Combinammo la medicina moderna allopatica con la medicina tradizionale indiana (l’ajurveda) e con lo yoga. Lo yoga e il panchakarma, che è parte dell’ajurveda, non adoperano medicamenti invasivi, potenzialmente e spesso provatamente dannosi. Dato che le persone esposte al gas del 1984 avevano sviluppato problemi di salute a più livelli, l’idea fu quella di tentare sistemi diversi di cura, perchè magari alcune di queste soluzioni avrebbero potuto funzionare meglio, e in ogni caso non avremmo avuto i danni collaterali che i sistemi utilizzati fino ad allora avevano causato.

Fummo pratici, diretti. Uno dei sintomi più frequenti e fonte di deperimento, era la mancanza di appetito. Per questo la medicina moderna qui ci aveva offerto solo qualche rimedio poco efficace - null’altro. Ma l’erboristeria indiana contempla invece rimedi testati in materia. Oppure, tanti riportavano problemi muscolari, e uno yoga mirato su questo aiutava.

La vita nella zona attorno alla fabbrica

Ho visitato la zona attorno alla Union Carbide: mi è parsa terribile, molto povera e insalubre, tra le peggiori della città...

Puntammo sulle possibilità della gente di migliorare alcune cose elementari, per esempio di proteggersi meglio dalle zanzare (che portano malaria dengue e chikungunya) e dalla TBC. Mettemmo ogni energia nel cosiddetto Community Health Work, Importante specialmente per i poveri, educazione alla salute nei quartieri, casa per casa (la nostra ‘medicina del territorio’, nota dell’autore).

Ebbene, il tasso di TBC è sceso di 10 volte tra i pazienti della clinica, rispetto alla media della zona. Nelle aree dove abbiamo lavorato coi nostri Community Health Workers, tutti volontari non pagati, sono stati identificati i posti dove le larve di zanzara, responsabili di malaria e dengue, si sviluppavano (le zanzare della malaria morsicano al tramonto, quelle della dengue durante il giorno). Basta rimuovere l’acqua stagnante, o almeno coprire quest’acqua con qualche goccia d’olio che si allarga sulla superficie dell’acqua stessa, e si nega alle larve l’ossigeno necessario per compiere il processo.

Chiedemmo poi agli ospedali di adottare pratiche semplici, come lo yoga, ma la cosa si rivelò tutt’altro che lineare. Nel 2011 organizzammo uno sciopero della fame di 17 giorni. Eravamo in 15 o 16 a digiunare, ma centinaia di altre persone erano convolte: a seguire, il governo accettò di inserire lo yoga negli ospedali, salvo ritornarci su due mesi dopo. Non abbiamo gli insegnanti formati, dissero… Fu infine la gente a capovolgere le cose: poiché prese a chiedere, direttamente negli ospedali, programmi di yoga, perchè i risultati di quelle brevi sperimentazioni erano stati buoni, e le persone ne avevano parlato tra loro: l’importanza del passaparola.

In due anni mettemmo insieme i dati e le testimonianze di 2100 persone.

Ambulatorio della Sambhavna Clinic

 

A Bhopal abbiamo 6 ospedali, ma la sperimentazione era stata fatta solo in uno di essi. Scrivemmo al primo ministro dello stato del Madhya Pradesh: questi sono i risultati, non potremmo estendere la pratica? Scrivemmo anche al dirigente principale della salute pubblica di Bhopal. La Sambhavna Clinic sosteneva due cose. La prima, che la medicina moderna ha effetti collaterali, che se possiamo evitare sarebbe meglio. La seconda che lo yoga può mitigare o risolvere alcuni problemi dell’esposizione al gas.

Ma non ottenemmo il permesso che volevamo. E solo 6 mesi dopo, attraverso una legge chiamata “Right to Information”, venimmo a sapere cosa era accaduto: primo, le autorità ospedaliere negavano effetti collaterali nelle cure mediche fin lì attuate; secondo, dissero che lo yoga non aveva alcun effetto reale sulle vittime dell’isocianato di metile. Tra le ragioni per questo ostinato rifiuto, il fatto che le case farmaceutiche beneficiavano delle medicine vendute per curare queste affezioni, e che gli stessi politici, e i medici, ricevevano da quelle case farmaceutiche commissioni del 40% sugli affari che portavano a casa. 

La solita corruzione sistemica. D’altra parte la UC era al tempo una delle più importanti multinazionali dell’epoca, in grado di dettare i termini della questione al governo indiano (al tempo guidato ancora dal partito del Congress). Comunque, il BJP che è al governo adesso, da quando è al potere ha fatto 10 volte peggio del Congress. Si scoprì che la Dow Chemical, che nel frattempo aveva inglobato la Union Carbide, era tra i finanziatori del partito di Modi. Ma il BJP aveva fatto approvare una legge che secreta le informazioni sui fondi alla politica: in India non esiste l’obbligo di rivelare da chi ricevi i finanziamenti. 

Risultato: prima che l’attuale primo ministro arrivasse al potere, le azioni della UC/Dow Chemical nel mercato azionario indiano erano al 2%, adesso sono ben oltre il 25%. Tra l’altro vendono in India, un enorme mercato, cose che in America sono bandite.

Come accertate che si tratti genuinamente di vittime della fuga di gas del 1984?

I pazienti devono presentare delle carte, certo, ma non ci basiamo solo su quelle. Se non ci sono le carte, ma viene chiesto aiuto alla clinica, uno dei nostri operatori sociali va sul campo, nel quartiere, e domanda ai vicini. Nelle comunità povere tutti sanno tutto di tutti, e il nostro social worker chiede di quella persona, della sua famiglia, eccetera.

Come funziona la clinica?

D. Quindi nel 1996 fondate Sambhavna, con cui curate secondo una trafila precisa, gratuitamente. Avete i vostri dottori. I pazienti che si presentano alla clinica vengono presi in carico solo se in grado di dimostrare che abitavano nella zona. E allora vengono visitati, registrati con un libretto sanitario…

La Sambhavna Clinic impiega 60 persone, tra medici, infermieri, personale vario e    attivi nella comunità colpita. Dopo l’appello lanciato sul Guardian, si forma la Bhopal Medical Appeal, una charity. Va avanti così da 23 anni. Nel 2019 avevamo 30.000 donatori da 45 paesi. Poi però il governo ci ha sospeso l’abilitazione a ricevere denaro dall’estero. Quindi attualmente dipendiamo solo da donatori indiani. Essendo passati tanti anni dal disastro, la gente non crede vi siano ancora così tanti ammalati per colpa dell’esposizione al gas. Inoltre, sull’argomento non c’è più copertura mediatica.

 

Pazienti in attesa alla Sambhavna Clinic

 

Comunque abbiamo inoltrato una nuova domanda. Dovevano passare 6 mesi per la risposta, sono passati due anni e ancora niente. Adesso abbiamo meno medicine, meno medici rispetto al 2019. Ma paghiamo tutti, anche se il nostro personale guadagna un 30% in meno di quanto percepirebbe fuori di qui. Visitavamo il doppio della gente prima della sospensione dei fondi dall’estero

La contaminazione della falda acquifera, e la conquista di un nuovo acquedotto

Sappiamo della contaminazione della falda acquifera in tutta la zona circostante… Cosa beve la gente del posto?

Di base l’impianto chimico fu disegnato malamente, per abbattere i costi.  La contaminazione della falda comincia ben prima del disastro del dicembre 1984. In Virginia, alla fabbrica principale della Union Carbide, il materiale dei recipienti per le acque di scarto delle lavorazioni era in acciaio inox di alta qualità. Qui a Bhopal invece fu costruito in acciaio al carbonio, che ha minore resistenza alla corrosione. Poi i recipienti delle acque di scarto che negli USA sono piccole, capacità 10 tonnellate, qui invece si arriva 80 tonnellate, recipienti enormi. In tal modo, i costi si sarebbero ridotti del 30%. A Bhopal poi costruirono degli invasi in cui le acque sarebbero evaporate col sole. In un’area di circa 10 ettari, circa 400 metri a nord della fabbrica, gli invasi furono tre, di 7/8 metri di profondità ciascuno, coibentati con politene ad alta densità. Ma i responsabili della Union Carbide non avevano pensato al monsone: ogni anno con le piogge queste vasche esondavano, e ciò accadde a partire dal 1977 (la fabbrica fu costruita nel 1970). Contadini della zona ebbero i raccolti distrutti, bruciati. Nel 1981 uno di questi invasi risultò svuotato: perdeva. Inoltre dentro la fabbrica fecero 21 buchi per terra, e tutto questo aggiunse altra contaminazione.

Cinque anni dopo il disastro alla Union Carbide si decisero a controllare anche questo elemento. Il team di tecnici di laboratorio che doveva individuare i valori di vitalità dell’acqua della falda, alla profondità di 80/100 metri, rilevò che questa era completamente morta, neppure un pesce avrebbe potuto sopravvivere, abbiamo il rapporto ottenuto da una causa intentata negli Stati Uniti. Puoi immaginare cosa fecero con questo Rapporto. Nulla trapelò ma nel 1990, di notte, riuscimmo a entrare qui a Bhopal nel terreno della fabbrica. Prelevammo campioni di terra e di acqua dagli invasi, e li mandammo negli USA affinché fossero analizzati. Provammo anche a farlo in India, ma tutti i tecnici cui ci rivolgemmo non volevamo proprio inimicarsi la UC. Tutti dissero, possiamo effettuare le analisi e redigerne i risultati, ma non le firmiamo. Successe allora che la UC commissionò una investigazione in materia ad un’agenzia scientifica del governo indiano, ma i risultati furono pilotati. L’agenzia rilevò l’esistenza di una pesante contaminazione in seno alla fabbrica, sul 21% dell’area, ed anche nella falda, ma che questa contaminazione non raggiungeva l’esterno della fabbrica. Successivamente furono pubblicati qualcosa come 17 studi diversi in proposito. L’ultimo di un’altra agenzia statale, l‘Indian Institute of Toxicology Research, rilevò nel 2018 che la contaminazione era arrivata a 3 km e mezzo fuori dalla fabbrica. Cioè, gli inquinanti si stanno muovendo verso il centro della città, verso il lago naturale che abbiamo a Bhopal, eccetera. Ora, esiste la Convenzione ONU sui “contaminanti persistenti”. Entrata in vigore nel 2004, mira a proteggere la salute umana e l’ambiente dagli effetti nocivi degli inquinanti organici persistenti, conosciuti con l’acronimo di POPs dall’inglese “Persistent Organic Pollutants”: sono le sostanze chimiche nocive che rimangono intatte nell'ambiente per lunghi periodi e che si accumulano nel tessuto adiposo dell'uomo e della fauna selvatica) (https://www.mase.gov.it/pagina/convenzione-di-stoccolma).

Questa Convenzione (detta anche Forever Chemical) identifica 28 agenti inquinanti principali, e la cosa più preoccupante è che 9 di questi si trovano nell’acqua di Bhopal. Ebbene, la gente beveva quest’acqua.

Nel 2006 e nel 2008, 55 di noi raggiusero Delhi da Bhopal, con una marcia durata 37 giorni. Denunciavamo lo stato delle cose e chiedevamo che ci fosse portata, con un acquedotto, dell’ acqua sicura. E lo ottenemmo, ora la gente del posto può bere dai rubinetti. Ma nell’area qui intorno cresce la popolazione, sai come funziona in India, e l’acquedotto non raggiunge i nuovi sviluppi abitativi.

Pompare acqua della falda a Bhopal, nel quartiere vicino alla ex fabbrica

 

Già nel 1989 la UC aveva fatto fare uno studio sull’acqua, tenuto segreto. Nel 1996 avevano mandato le ruspe a rimuovere la poltiglia tossica dagli invasi, visto che nella stagione secca questi ultimi rimanevano completamente vuoti, perché l’acqua evaporava. Così avevano rimosso completamente melma da due vasche, trasferendola tutta nella terza vasca. Poi coprirono di terra quest’ultima. Solo un giornale diede la notizia, e non era la stampa di Bhopal. C’era in citta’ un giornalista del Washington Post, in quei giorni, per questo la notizia trapelò. Riteniamo che quelle migliaia di tonnellate di sostanze tossiche interrate in un terreno non sicuro siano responsabili di una ulteriore grave contaminazione.

 

Ospedale, fattoria, medicina naturale. Una risposta-modello ai disastri chimici  

Un giro nel terreno circostante alla clinica, in compagnia di Sathyu, è una meraviglia che ti riconcilia con la vita: si entra in un’oasi di verde rispetto alla bruttura del quartiere, con giardinieri che se ne prendono cura. Gli appezzamenti sono inframezzati da laboratori di trasformazione e preparazione dei rimedi ajurvedici. Questa sorta di fattoria, dove si coltivano qualcosa come 400 varietà di piante, fa parte della struttura. L’irrigazione ha luogo tramite la fornitura di un acquedotto che arriva da lontano, non si attinge alla falda locale.

Coltivazioni di curcuma nell'orto della clinica

 

La vostra Clinica sembra diventata un modello…

Bhopal non è un caso isolato, né geograficamente né storicamente. In Italia avete avuto Seveso, l’amianto, ed altro. Ma sono tanti i disastri chimici internazionali, avvenuti anche in Europa. Quello che abbiamo cercato di mettere in piedi qui è una risposta-modello a queste evenienze.

La specialità della nostra clinica è l’assenza di effetti collaterali nelle cure. Inoltre, non c’è alcuna incidenza negativa sull’ambiente. Il nostro terreno produce una gran quantità di piante medicinali che poi usiamo per l’ajurveda. Abbiamo sviluppato strategie per le malattie auto immuni che si rivelano comuni nelle evenienze di disastro ambientale quando l’organismo prende a lavorare contro se stesso. Abbiamo stabilito inoltre una procedura di disintossicazione col panchakarma, una tecnica dell’ajurveda.

Preparazione di medicinali ajurvedici alla Sambhavna Clinic

La medicina normale utilizza soluzioni basate sull’acqua. L’ajurveda è efficace invece nell’espellere sostanze tossiche che si combinano coi grassi, perché adopera oli (il ghee, per esempio, che è burro chiarificato). E d’altra parte, molte delle sostanze tossiche prodotte qui sono lipofile, si combinano coi grassi.