Parliamo di alpinismo di massa, le vette sono le più ambite del pianeta. Siamo in Nepal tra gli Sherpa, il cui nome designa un gruppo etnico specifico, e non è sinonimo - come a volte si crede - della professione di portatore.
Gli Sherpa, un popolo di 150.000 persone, divennero famosi con la conquista dell’Everest (29 maggio 1953), quando lo Sherpa Tenzin Norgay e il neozelandese Edmund Hillary raggiunsero per la prima volta la vetta del Tetto del mondo.
La questione, molto dibattuta in un paese che vede la sua fama e i suoi redditi inestricabilmente legati all'alpinismo (anche se Kathmandu si trova a soli 1500 metri), emerse tragicamente qualche anno fa con la valanga che seppellì 16 Sherpa sull’Everest. Erano tutti lavoratori della montagna. La vicenda e i suoi sviluppi restano monito e oggetto di riflessione a tutt’oggi.
Nel suo bel documentario intitolato proprio Sherpa, uscito nell’ottobre 2015 negli USA, la regista australiana Jennifer Peedom ha raccontato quei giorni. Con poche concessioni al buonismo ed alla mistica dei vari tetti del mondo (colonna sonora a parte), ma in relazione alla valanga di ghiaccio che sconvolse la frequentazione della grande montagna nel 2014.
La locandina del film “Sherpa”, un film del 2015 della regista australiana Jennifer Peedom. Foto da internet
Per la prima volta gli Sherpa sono andati in scena con le loro rivendicazioni. Protagonista Phurba Tashi, che aveva scalato la montagna ben 21 volte, e che era quella volta destinato a guidare il team del Neozelandese Russell Brice e della sua agenzia di spedizioni alpinistiche, la Himex.
La moglie e la famiglia di Tashi nel villaggio di Khumjung vogliono che lui la smetta di rischiare la vita arrampicando giusto per denaro, lui nicchia. Ma via via, in risposta alla catastrofe che li inter-roga, gli Sherpa giungono ad astenersi dal lavoro. Phurba Tashi ri-fiuta di ripercorrere le orme dei compagni morti su quel ghiacciaio assassino, almeno in quel momento, perché farlo è troppo pericoloso. Perché c’è qualcosa che non funziona. La vicenda ha luogo in piena stagione turistica, pregiudicandone lo svolgimento.
Il film esplora alcuni aspetti della cultura Sherpa ma anche della cultura turistica dominante. Mostra il pesante e rischioso lavoro che questa gente affronta nelle ascese multiple della montagna, necessarie a preparare la via per le scalate degli alpinisti stranie-ri, che solo dopo il loro passaggio diventano possibili. Ed ha il pregio di mostrare in modo asciutto le due facce della medaglia: quella degli Sherpa con la loro psicologia e la loro relazione con la montagna, e quella delle decine di alpinisti aspiranti alla scalata dell’Everest, che mettono in campo invece tutta la loro delu-sione davanti all’impresa mancata. E ciò che quest’ultima rappresenta per loro innesca le riflessioni per me più sorprendenti della vicenda.
Da un lato gli Sherpa, per i quali l’ennesima pericolosissima scalata significa il salario, per sé e la famiglia. Uno Sherpa guadagna in media 125 dollari per giorno di scalata. Viene di solito da una famiglia dove ormai scalare significa tutto. Allevato col mito delle spedizioni, in un contesto dove le opportunità economiche alternative sono inesistenti. Così ogni anno dai 350 ai 450 Sherpa lavorano nel settore, portando a casa paghe pari a 5000 dollari l’anno, a fronte di un salario annuale medio che in Nepal non supera i 700. Di questo salario gli Sherpa hanno molto bisogno, ma qui sceglieranno di rinunciarvi.
Dall’altra i turisti-alpinisti, giunti nel Khumbu (così si chiama il distretto nepalese dell’Everest) da tutto il pianeta, che spendono decine di migliaia di euro per questa vetta. Essi, profondamente delusi per la forzata cancellazione della scalata, sciorinano il proprio rosario di motivazioni. Che vanno dall’ossessione di mettersi alla prova fisicamente e psicologicamente, al miraggio di poter vantare un’impresa memorabile (agli occhi degli altri ma anche di se stessi). Gli intervistati arrivano perfino a dichiarare l’intenzione di “regalare ai figli qualcosa di cui essere fieri” – così uno di loro davanti alla macchina da presa. Come si trattasse di aspirazioni irrinunciabili, e non di desideri (pur legittimi) da far passare in secondo piano di fronte alla tragedia. Come fosse tutto sacrosanto, avendo in fondo loro pagato.
Di fronte alla morte che arriva spietata dalla montagna, gli Sherpa sceglieranno comunque per la rinuncia, anche se si tratterà di un'astensione dal lavoro molto combattuta. Faticano a dire di no ai capisquadra stranieri, con quella ritrosia nei confronti degli occidentali propria di molti nepalesi, però alla fine tutti si autosospendono (questo nel 2014, poi nel 2015 la stagione andrà nuovamente in malora per via del terremoto).
Khumjung, Khumbu, Nepal. Montagne della catena dell’Everest. Foto Renzo Garrone
Un altro dei pregi della pellicola è nella formula. Nel suo porsi all'incrocio tra il documentario, basato su interviste-reportage, ed il film classico, con una narrazione da fiction. La sofferta decisione degli Sherpa viene mostrata ritraendone il reale comportamento, senza che le loro parti vengano ricreate, messe in scena, provate e riprovate. Gli Sherpa, che evitano dapprima il conflitto coi datori di lavoro stranieri - conflitto a muso duro che non fa parte del loro modo di essere - scelgono la via di un’opposizione sorda all’insistenza del business as usual dei capi spedizione. Colgono, nella morte che colpisce la loro comunità sul ghiacciaio, un avvertimento della montagna-divinità: davvero uno specifico culturale da subcontinente indiano. Davanti alla calamità, e nel confronto con gli occidentali, tra gli Sherpa prevalgono soprattutto le ragioni superiori di forze che ci sovrastano e che vista la loro immanenza, non vanno sfidate. La coscienza di classe, pure ben presente nel film, passa alla fine in secondo piano: non si smette di lavorare come rivendicazione, ma come segnale di umiltà verso la montagna.
Dall’altro capo del filo, la penosa situazione dei capispedizione – tra cui il veterano anglosassone che campa di scalate all’Everest da un ventennio – costretti ad una mediazione estenuante con gli Sherpa perché non mandino in fumo la stagione. Capispedizione che, pressati dai turisti paganti in attesa del loro turno per la vetta, per uscirne non troveranno di meglio che inventare, dandola in pasto ai clienti in attesa, l’esistenza di gruppi di militanti “terroristi” tra gli Sherpa. Che avrebbero minacciato di ritorsioni gli Sherpa stessi nel caso di non-astensione dal lavoro.
Il film fu girato in risposta alle controversie esplose durante la stagione alpinistica 2013. La Peedom e la sua troupe erano sul posto il 18 aprile 2014 quando una valanga di ghiaccio si staccò dal ghiacciaio del Khumbu, uccidendo quei 16 Sherpa impegnati nel proprio lavoro. La vicenda generò un aspro confronto tra gli stessi Sherpa, alcuni leaders di spedizioni straniere, ed il governo Nepalese, in merito sia ai salari che alle condizioni di lavoro, risoltosi alla fine in un significativo aumento delle compensazioni per le famiglie delle vittime.