In tutto il Maghreb, in tutta l’Africa tradizionale, e in tante parti del Medio Oriente, esiste o è esistito l’uomo-clessidra. Un regolatore delle acque a tempo. Un sistema del genere era praticato anche in Iran. Qui Yazd, la grande città ai margini del deserto orientale, dedica un bel museo alla questione dell’approvvigionamento idrico tradizionale. Centrato sui qanat, le antiche canalizzazioni ormai in disuso (risale a un’ottantina di anni fa il loro ultimo utilizzo). A Yazd, tecniche millenarie di adattamento ad un ambiente inospitale hanno garantito l’egida UNESCO, giunta nel 2018.

Già nella Persia antica esisteva un sistema autoctono di distribuzione pubblica delle acque tramite i qanat (l’etimo di qanat presenta evidenti assonanze con l‘italiano canale), in cui ogni contadino riceveva la sua equa quantità per irrigare. Ed esisteva un contabile dell’acqua, super-partes, persona stimata da tutti.

 

10.000 km più a est, a Bali in Indonesia, acqua ce n’è sicuramente di più, ma si tratta lo stesso di una risorsa strategica. Anche qui, nelle risaie della parte centrale, montuosa, dell’isola, la distribuzione artigianale delle acque per caduta, o Subak, è oggi un sistema protetto dall’UNESCO. Basato su criteri di equità, il Subak garantisce un’agricoltura imperniata sul riso di montagna e salvaguarda il paesaggio, grande attrattiva turistica.

Fino ai tempi dello Scià Mohammed Reza, in Iran  funzionava lo Zarch Qanat, a nord di Yazd. Frutto di 100 km di scavi sotto la ruvida scorza del deserto locale, il canale si dirigeva verso la maggiore tra le città della zona. Anche qui l’approvvigionamento delle acque avveniva per caduta, da una sorgente situtata sulle montagne più vicine. L’abitato di Yazd ha almeno 3000 anni, e per tutto questo tempo furono certamente i qanat e la loro funzionalità a rendere l’esistenza possibile.

Esfahan, 2017. Il fiume Zayandaeh dopo le piogge di primavera. Foto Renzo Garrone

Se lo Zarch era probabilmente il più lungo ed antico tra i qanat della pianura iraniana, i qanat erano però numerosi. Riuscivano a portare lontano preziosa acqua sorgiva. Venivano scavati appena sottoterra, affinchè l’agognata materia prima risultasse raggiungibile dalla superficie tramite pozzi regolari, senza evaporare.

Il loro insieme costituiva reticoli straordinari, ottenuti e mantenuti a mano utilizzando certe picozze corte e tozze, le uniche manovrabili nelle strette gallerie.

Oggi non più attivi nella grande Yazd, i qanat resistono però in villaggi e cittadine della zona. Spesso sono stati inglobati nella rete idrica moderna, un pò come accade ai nostri antichi e gloriosi acquedotti.

Per esempio attorno alla città di Mehriz, un 80 km sulla strada per Kerman, dove alcune guide offrono anche escursioni speleologiche.

Patrimonio documentato dell’antica Persia fino dal 500 a.C, un’altra delle grandi trovate dell’Impero di Ciro, ed in realtà pre-esistenti, i qanat si diffusero in un’area immensa, dove il contesto desertico e semidesertico ne richiedeva l’utilizzo, prima dell’avvento della tecnologia moderna. Addirittura, si pensa, dalla Sicilia all’Afghanistan.

L’epopea dei minatori dell’acqua

Per le genti che vi hanno avuto a che fare, i qanat furono un‘epopea. Un pò come quella delle miniere, tranne che qui non si cercavano pietre preziose, oro argento o carbone, ma il bene più prezioso: l’acqua. Il cui approvvigionamento questa rete idrica serviva a salvaguardare.

Quella dei Qanat fu quindi un’epopea, simile a quella dei centri minerari di mezzo mondo, qui però nobilitata da finalità diverse. Una cosa fu infatti lo scavo febbrile alla ricerca di metalli preziosi  - vedi per esempio la storia che tutti dovrebbero leggere del Cerro Rico a Potosì in Bolivia, raccontata da Eduardo Galeano ne Le vene aperte dell’America Latina. Una cosa le miniere dell’Iglesiente in Sardegna, facendo un altro esempio, dove si sale di tono (il carbone serviva in fondo anche per cucinare e riscaldarsi).

Yadz, il Museo dell'Acqua. Foto da Internet

Ma in Iran, nei rischiosi cunicoli del qanat, dove questa gente armeggiava, si garantiva il più necessario dei beni. Gli operai dei qanat erano veri e propri minatori dell’acqua, amatissimi dalle loro genti - come del resto quasi sempre risultano essere i minatori. Scavavano, livellavano, modificavano e monitoravano continuamente il loro regno appena sottoterra, purtroppo abbastanza sotto da lasciarci spesso le pelle (un crollo, uno smottamento, una flash flood erano evenienza comune). Lavoravano con picozze e lampade ad acetilene, vestiti di bianco in modo da distinguersi nel buio, procedevano in cunicoli claustrofobici con buffi copricapo e strumentazione di altri tempi. Il loro territorio di superficie era annunciato da argani. Essi sancivano lo scavo di pozzi che mettessero in contatto il sottosuolo con la luce del sole, a intervalli regolari.

I qanat, dunque. Che nell’Iran di oggi rappresentano un‘epopea conclusa, ma non dimenticata. Qui a Yazd, con lo sfruttamento eccessivo della falda, e con l’incedere della desertificazione, la falda stessa si è abbassata grandemente, e l’acqua alla mercè di infiltrazioni saline dal sottosuolo spesso non è più buona da bere. In Medio Oriente come nell’Africa sub-sahariana la desertificazione ha caratteri inquietanti (le cifre sono apocalittiche). Al contempo, la popolazione è dappertutto molto cresciuta. Così da queste parti la soluzione è stata la costruzione di un grande acquedotto, che arriva da Esfahan. Attraverso 330 kilometri, ovviamente desertici ed assolati.   

Il Sio-o-se Pol"ponte dei 33 archi", è uno degli undici ponti di Esfahan. Foto Chiara Bille, 2017