Nel pomeriggio terso di Shiraz, dopo aver dribblato un traffico insistente, visitiamo gli Eram Gardens. Sono in compagnia di mio figlio Siel, 32 anni. Si tratta di bellissimi giardini persiani, costellati di aiuole e giochi d’acqua, inseriti nella lista UNESCO dei giardini Patrimonio dell’Umanità – l’Iran è nelle prime posizioni mondiali per la cura del verde pubblico, ad alto valore sia estetico che d’uso. Forse per controbattere la percezione di un’aridità sempre crescente, che si insinua ovunque, la gente qui va pazza per quel pò di verde di cui dispone. Nei weekend ogni spazio alberato ed erboso, in città che ospitano il 70 per cento della popolazione del paese, si riempie di famiglie. Vengono per il picnic. Picnic infiniti, che durano giornate intere. Cui gli stranieri saranno immancabilmente invitati ad unirsi.

Da un vialetto alberato appaiono cinque ragazze nerovestite. Fasciate in uno spolverino come succede ad un buon 80 per cento delle iraniane più giovani. Sono lì ad armeggiare con una macchina fotografica e un treppiede. Con modi propositivi e piglio sbarazzino, ci abbordano.

 

Chi non sia stato in Iran precedentemente, come mio figlio, non se l’aspetta di certo: uno immagina che qui le ragazze abbassino lo sguardo e tirino dritte, non dovendo interagire affatto. Ebbene, succede tutto il contrario. Loro si presentano come studentesse, dicono di stare realizzando un documentario, che vorrebbero “intervistarci”. A parte l’abbigliamento, per il resto assomigliano, in tutto e per tutto, alle nostre studentesse di un qualsiasi istituto superiore.

Stiamo al gioco. Sul tablet che una brandisce ci viene mostrato un video con una moschea dalla pronunciata cupola a bulbo – le ragazze chiedono cosa ci fa venire in mente. Ammiccano un pò, come dovessimo conoscere la risposta per forza. Nel video si aggira una gran folla, e a me viene in mente per prima cosa la Mecca. Ma manifestamente non si tratta della Kabaa, il luogo sacro in Arabia Saudita verso il quale tutti i musulmani pregano.

Viceversa, sono immagini girate a Najaf o a Karbala – che fino allora ho visto solo in qualche rara fotografia, e di cui ho letto in modo frammentario. Trattasi dei luoghi sacri degli sciti, uno dei quali ospita la Moschea di Imam Hosseini, martire supremo di questa corrente dell’Islam. Meta di intensi pellegrinaggi, Najaf e Karbala per ironia della sorte si trovano oggi in territorio iracheno. Non distanti dal confine, ma in un Iraq a maggioranza sunnita, e non nell’estremamente sciita Iran.

Ci ho azzeccato, conferma compiaciuta la ragazza. E’ il più grande gathering del mondo! – si infiamma lei, continuando a guidare la conversazione.

Siel ed io ci guardiamo. Ma ci credono davvero, o cosa? E a quale scopo un gruppetto di teens in un pomeriggio ai giardini si impegna in queste interviste? Ragazzine che da noi, nei vialetti di un parco del genere, potrebbero ridacchiare con le amiche pensando ai propri coetanei, o magari semplicemente sarebbero insieme a dei coetanei maschi, qui si dilettano ad invocare la barba del profeta? Tra l’altro “l’intervista” termina lì, rapidamente: due convenevoli e fine della fiera.

Cosa c’è dietro, a chi serve tutto questo? L’episodio racconta dell’indottrinamento vigente nel paese. Che parte dalla scuola. E’ lo specchio di una certa scolarità dove l’islam scita bigotto e di “saldi principi” riflette sul proprio ombelico invece che sul mondo. E lo scopo di una “ricerca” del genere da compiere intervistando i passanti, tanta manna se stranieri, è la pensata propagandistica di qualche insegnante, probabilmente lui stesso un clerico, o almeno dalle intenzioni intensamente religiose. Gente di cui l’Iran è pieno. Una propaganda, alla fine, mirata a rinforzare lo status quo. Con la fiaba triste dell’Imam Hosseini, martire supremo dello sciismo. Su cui però non si scherza, non è mai lecito scherzare.

 

Salutiamo la combriccola. Ma il pomeriggio ha in serbo per noi altri incontri al femminile. Più laici e meno imbarazzanti. Altre due ragazze d’altro stampo, ventenni o giù di lì, girano attorno a Siel, che a 32 anni è indubbiamente un bel tipo. Alla prima occasione attaccano discorso. Vogliono semplicemente fare amicizia, chiacchierare, magari andarsi a prendere un gelato con uno straniero bello e soprattutto interessante, diverso dai soliti ragazzi iraniani che capiterà loro di incontrare.

Facciamo amicizia e si ride, vengo coinvolto anch’io. Le due si chiamano Fatima, 23 anni, e Mahtab, 20, entrambi nomi di fantasia, e si presentano come studentesse in medicina. Fra qualche mese, dicono, destinate a trasferirsi a Vienna, per frequentare un periodo di università all’estero. Che siano entrambe di famiglia ricca mi pare evidente. Mahtab spiega che suo padre pagherà loro l’affitto di un appartamento nella capitale austriaca. Chiacchieriamo del più e del meno, dell’Iran e di noi, ci raccontiamo un pò degli uni e delle altre. Chiediamo quindi dove si prende l’autobus per tornare in centro e le due ci offrono un passaggio in macchina (“mai avuto un incidente”, ironizza Mahtab, ridendo della guida dell’amica).

In auto, il velo delle ragazze scivola giù abbastanza facilmente, scoprendo i capelli. “In Austria continuerete a portarlo?” – chiede Siel alla guidatrice. “Ma va”, lo liquida lei con un sorriso sicuro. A me viene in mente quel che succede quando, a Teheran, si sale su un volo diretto all’estero. Dal check-in e poi fino al decollo le donne restano intabarrate. Appena in aria, di colpo, tutte si liberano del velo, mettendo di nuovo in mostra capelli, colori, carnagioni, forme.

Siel racconta alle ragazze l’immagine dell’Iran che prevale in occidente. Parla del divieto, che spesso si pensa viga in Iran, della frequentazione pubblica tra uomini e donne. Un’immagine che è legata soprattutto al periodo iniziale della Rivoluzione, quello di Khomeini, che fu infarcito di queste fissazioni. Per Siel, appena arrivato, c’è un po’ di apprensione: il fatto è che adesso noi siamo lì con queste due, assieme a loro da un paio d’ore, prima al parco, poi in auto, quindi davanti all’Arg, ossia alla Fortezza della piazza principale di Shiraz – dove nel frattempo siamo arrivati. Ci hanno visto tutti, e se questo è vietato…

Razionalmente, i timori di mio figlio appaiono fondati. Per fortuna non c’è nulla da temere, perché la realtà odierna è ormai un’altra.

Linguisticamente, la nostra comunicazione con queste ragazze resta precaria. Da parte di Siel e Fatima avviene in un tedesco molto basico (Siel vive da anni in Germania, lei possiede un’infarinatura della lingua), da parte mia e di Mahtab in un inglese altrettanto elementare. E i ragazzi ricorrono agli smartphones e a Google Translator, che ci facilita enormemente. 

Dopo averci pensato un pò, le due rispondono che la nostra percezione dell’Iran è colpa del loro “leader” (lo chiamano così, preferendo non menzionare il nome di Khamenei). Ma che almeno una parte della società civile locale vive più liberamente. E questo non hanno bisogno di spiegarcelo, lo si vede tutto attorno a noi, in una città come Shiraz. Che si frequenta, interagisce, uomini e donne insieme, famiglie, fidanzati, amici – l’Iran non è l’Afghanistan dei Taliban. Troppo colto per soccombere all’oscurantismo, troppo vivo per rimanerci sotto. Un oscurantismo che ha i suoi baluardi nell’organizzazione dei Basiji, la guardia nazionale di Khomeini, oggi una sorta di CL iraniana. E nei Pasdaran, potente forza militarizzata (ci sono loro nei teatri di guerra asiatici dove l’Iran degli ayatollah è impegnato). Un oscurantismo però che non desidera neppure una porzione dello stesso clero iraniano. Quella oggi al potere, con Rouhani.