In Indonesia vige l’Adat, quella customary law o diritto tradizionale che costituisce l‘insieme delle norme specifiche di una comunità. Esistono molteplici Adat, per via dello straordinario multiculturalismo che caratterizza la nazione. E la Costituzione Indonesiana, laica, riconosce di tutti questi codici comportamentali, con i loro valori, la legittimità.

“Ma in nessuna altra parte dell’arcipelago indonesiano l'Adat è stato così interiorizzato come a Bali“ – dice Wayan P. Windia, 63 anni, che incontro in un sabato pomeriggio assolato a casa sua a Denpasar. Docente di Diritto Comunitario all’Università Udhayana di Denpasar, il prof. Windia in materia è un’autorità. Nessuno meglio di lui può spiegarmi cosa sia l’Adat.

 

Sono venuto qui, all'università più quotata di Bali, per cercare delle spiegazioni, se ve ne sono. Spiegazioni della schizofrenia che caraterizza, anche in quest’isola così mitizzata, il modello di sviluppo oggi prevalente. Bali per altri versi resta meravigliosa, ma l‘emigrazione verso l’unica zona che offra lavoro ben pagato, il sud della Regency di Bandung, è ormai talmente massiccia che il fenomeno crea problemi.

Wayan P. Windia, 63 anni, è docente di Diritto Comunitario all’Università Udhayana di Denpasar, Bali. Foto da internet 

Succede infatti che la gente, secondo l’Adat balinese, pensato per una società contadina ad alto livello di coesione, dovrebbe fondamentalmente rimanere nei propri villaggi. Quantomeno, dovrebbe continuare a gravitare su di essi, interagendo con la propria comunità, in modo costante ed intenso. Questo interagire, si badi, deve avvenire non solo sul piano affettivo-emotivo ma anche su quello pratico. L’aggregazione locale, che governa la vita sociale del villaggio, ossia il Banjar, deve assolvere a delle corvee di tipo concreto. Che girano attorno alla pratica delle cerimonie. In occidente si potrà sorriderne, ma qui gli obblighi religiosi integrati nell’esistenza comunitaria sono un aspetto centrale nelle vite di tutti. E senza comunità, per i balinesi, non siamo nulla.

Oltre all’agricoltura e alla pesca, risorse primarie, e ad una quota di artigianato, l’unica opportunità lavorativa oggi nell'isola è però il turismo. Il quale prospera a sud, trainando prepotentemente l’economia, ma non è arrivato (ancora) dappertutto. Dunque nei villaggi di montagna che non beneficiano dei dollari turistici, e dove l’economia agraria coi suoi bassi salari non può tenere il passo (l’equivalenza non regge) con un contesto regolato soprattutto dal denaro, succede non vi sia lavoro abbastanza, nè sufficientemente retribuito, per una popolazione sempre crescente. E neppure esistono, nella Bali rurale, possibilità di studiare a livello superiore.

Così, dalle campagne di tutta l’isola, giovani e meno giovani, a frotte, si spostano verso sud per lavorare e studiare. Verso la capitale Denpasar e verso le resorts di Kuta, Legian e Seminyak da un lato, Sanur e Nusa Dua dall’altro – in breve verso la Regency di Badung. Dando vita a un pendolarismo cronico verso i divertimentifici e ad un affollamento insostenibile dell‘unica zona di Bali che possa definirsi dinamica in senso moderno. L’intasamento quotidiano del capuoluogo Denpasar, il suo traffico terribile, la sua qualità di vita ormai asfittica, ne sono l’esempio più eclatante. Ma il traffico, l’affollamento e lo smarrimento progressivo dei valori comunitari e sociali che i balinesi sperimentano qui costituiscono solo l‘altra faccia del boom. Perchè il turismo da queste parti, in assenza di altri investimenti, di qualche diversificazione, si è fatto monocoltura. E studiare Bali col malsviluppo di quest‘area significa studiare gli effetti del turismo moderno su una società tradizionale esposta ai venti impetuosi del liberalismo economico. Una società che continua a reggere; ma come, e per quanto?

Adat, o Diritto Comunitario Tradizionale
Dico al professor Windia: mi sembra che l’Adat, questo sistema di regole per la comunità, che ne determina la cultura più profonda e il modo di stare al mondo, mal si accordi oggi a Bali con le impellenze dell’economia moderna. Che implicano una mobilità più vasta ed eclettica. Perchè nei fatti, da un lato la gente che emigra resta legata al villaggio d’origine, pur partecipando ormai poco alla vita dello stesso. Dall’altro, sul piano economico non vengono fatti adeguati investimenti nei villaggi, che possano invertire la rotta…
Intanto i balinesi restano attaccati all’obbligo delle cerimonie (come fosse quello il punto). Ma se non possono parteciparvi se la vivono male. Cerimonie, che per un occidentale sono in genere superstizioni o folklore. Ma il rimanere vincolati a quest’obbligo viene avvertito o no come un problema, chiedo a Windia, come a me osservatore esterno appare sia?

E‘ un problemone, risponde con lui con decisione. E‘ vero, alla vita del villaggio d‘origine bisogna continuare a contribuire. E nei villaggi nascono gelosie verso chi lavora fuori, in città. Costoro guadagnano bene ma in fondo oggi lo fanno solo per sè, ormai, restituendo/ condividendo ben poco con il luogo da cui sono partiti; anche se contribuire sarebbe obbligatorio nei confronti del proprio Banjar, visto che continuano a farne parte. Alcuni Banjar hanno varato leggi interne più stringenti, che proibiscono di assentarsi dalle obbligazioni sociali oltre un certo limite, utilizzando le libertà che derivano loro dalla pratica dell’Awig Awig. Cos’è l‘Awig Awig? Un ampio livello di autonomia dei villaggi sulle questioni del Diritto.

Il problema sono anche i soldi necessari alle cerimonie. Una pezza i balinesi la mettono con un sistema di compensazioni finanziarie che sembra fungere abbastanza bene. Cioè: visto che gli obblighi religiosi restano pietra miliare della vita comunitaria, e che le cerimonie costano care, tutti devono partecipare alla spesa. Una quota dei soldi degli emigrati deve tornare al villaggio. E ciò accade, come no. Ma quanto a lungo il denaro potrà surrogare la presenza fisica di una persona senza minarne l‘adesione alla propria comunità?
Per Putu Ermawan, anch’egli appena laureato in sociologia alla Udhayana University di Denpasar, quast’obbligo riguarda essenzialmente le persone sposate: i celibi e le nubili non sono così vessati.

I balinesi restano molto legati all’obbligo delle cerimonie, che comporta la presenza quasi obbligata al villaggio per mantenere  in equlibrio il sistema sociale tradizionale. Foto Renzo Garrone, 2011.

 

Ora, in un mondo più laico di questo i soldi potrebbero tornare al paesello in termini di investimenti (succede spesso, ai quattro angoli del pianeta). Come minimo, secondo il senso comune (e la morale piccolo-borghese), l’emigrato di ritorno si fa la casa nuova. Avendo a che fare con un imprenditore, ci si può aspettare un investimento sul fronte lavorativo, per esempio l’apertura di una piccola attività. Ma a Bali gli investimenti non mirano alla diversificazione. Il surplus degli ingenti guadagni della Badung Regency, dove passano 7 milioni di turisti l’anno, finisce in altri investimenti turistici, magari anche nelle campagne, ma raramente in altra imprenditoria. Quanto ritorna nei villaggi sparisce in cerimonie e in beni di consumo.

Nelle società occidentali complesse, rifletto, il paesello abbandonato spesso diventa, dopo un decennio o due, luogo di villeggiatura. L’abbiamo visto accadere in buona parte dell’Europa. Quanto meno, se si tratta di un luogo piacevole. E per la gente, il ripiego sull’idea di villeggiatura diventa un compromesso efficace, tramite cui si resta legati al contesto originario. Si recupera la casa di famiglia, ci si passa qualche settimana di vacanza. Ma di rado la percezione profonda dello spirito del luogo, sul posto, affiora ancora alla superficie della coscienza. Perchè la vita al villaggio è cambiata. Non vi si svolgono più le stesse attività produttive. Non esiste più, a dividere le stesse cose, una vera comunità.

Dice Windia: esistono similitudini tra gli Adat delle diverse isole, tra quello di Sumatra, di Giava e di Bali, per esempio. Vi sono studiosi dei singoli Adat, vi sono docenti specializzati. C’è lavoro per loro in Indonesia. Immagina un conflitto a Bali, che finisce davanti una Corte presieduta da un giudice giavanese: dato che la Costituzione riconosce la validità della legge tradizionale del posto, quel giudice dovrà per forza avvalersi di un Esperto di Diritto locale, balinese, come consulente.

Il professore mi spiega come anche la sua attività professionale sia tripartita.
Primo, egli insegna all’università, dove è notissimo (mi mostra il suo Dizionario dell’Adat balinese, titolo che traduco liberamente, un tomo persino più grosso del mio Turismo Responsabile!, senz’altro fondamentale nel suo settore).
Secondo, Windia opera come consulente.
Terzo, fa il ricercatore, poichè l’evoluzione del costume e della giurisprudenza non consente a nessuno di stare fermo, e intuisco come sia necessario modellare l’Adat sul presente, interpretandolo.

L’Adat si compone di aspetti religiosi, spiega ancora il professore, che comportano valori specifici. Da essi derivano principi codificati, regole ed obblighi morali e sociali. Per scendere a livello del singolo villaggio, tutto questo si traduce nell‘Awig Awig che (come mi spiega il sociologo Whayu, docente al Dipartimento di Sociologia della stessa università), consente al villaggio un ampio livello di autonomia sulle proprie questioni. I singoli villaggi a Bali possono quindi darsi regole proprie, ed esse diventano principi di diritto, purchè ovviamente non confliggano con l’ordine sociale, e in ultimo con la Costituzione.

Ma ciò che per l’occidente moderno è davvero difficile capire ed accettare della balinesità è il ruolo della religione. Una religiosità che a Bali è integrata nella vita quotidiana di tutti, mentre in occidente è stata espulsa dalle nostre vite, oppure trasmutata in altri appigli esistenziali.
Per Windia, la particolare forma di induismo vigente nell’isola di Bali si articola in tre punti. Il primo riguarda gli aspetti filosofici, alti, cioè cosa la religione significa nel profondo. Il secondo riguarda gli aspetti etici, ossia le norme che accettiamo e che determinano i nostri comportamenti, e che discendono dalla religione cui aderiamo. Il terzo punto riguarda cerimonie e rituali, che perlatro tutte le religioni mettono in scena; di cui pare gli esseri umani abbiano bisogno, per arginare almeno un poco lo smarrimento davanti alle complessità della vita.
Per Windia, le cerimonie e i rituali sono il livello elementare, cui si ferma la maggior parte delle persone. Si evocano con esse i simbolismi di base. Ma ci si accontenta anche di rimanere a questo stadio, con tutti i suoi limiti. Ci si accontenta di effettuare il rito.

A Bali la religione è il fulcro attorno a cui tutto ruota, senza la quale niente avrebbe senso. Foto Renzo Garrone, 2013.

D’altra parte la religione a Bali resta imprescindibile perchè, comunque la si voglia vedere, il singolo la percepisce come l’unica possibile chiave per l’armonia dell’esistenza. La religione è il caposaldo senza il quale niente avrebbe senso. Essa regola le forme dell’Adat e viene sintetizzata nel Tri Hita Karana, la filosofia balinese della relazione di ciascuno con gli Dei, con gli Umani, con la Natura. E’d è una declinazione pratica di questo sistema, il Subak , che va in scena da secoli sul territorio agrario della Bali centrale, che ha ottenuto un fondamentale riconoscimento UNESCO.

Tra tradizione e contemporaneità. Il conflitto
Avendo Windia riconosciute le crepe che il presente modello sta imponendo alla struttura sociale balinese, gli chiedo quando il sistema ha cominciato ad incrinarsi. Conosco già la risposta di base, che è storia, ma i dettagli sono importanti. Lui parla di diversi steps. Fa coincidere l‘inizio del cambiamento con l’arrivo del colonialismo olandese, prima col crollo del regno di Buleleng nel nord (1848), e poi col 1910, quando la corona olandese adotta le future isole dell’Indonesia, tra cui Bali, come propri territori effettivi d‘oltremare.
Il secondo step riguarda l’indipendenza del 1945, con l’avvento di Sukarno, per quanto egli abbia varato un sistema di stampo più socialista che capitalista.
Il terzo riguarda la più traumatica presa del potere da parte di Suharto, nel 1965, cui seguirono liberalizzazioni economiche a vasto spettro.
Un quarto step decisivo, dice Windia, si compirà dalla metà degli anni ‘70 in avanti, con lo spalancamento dell’isola al turismo internazionale (l’apertura dell’aeroporto tra Kuta e Jimbaran è del 1970, i primi voli internazionali diretti del 1971). E con il grande turismo avrà luogo un’esposizione massiccia, senza che fosse attivata protezione alcuna, alle fortissime influenze culturali internazionali.Un ultimo step riguarda la successiva esperienza di Amien Rais, che Windia sostanzialmente ripudia: dal 1998 quest’uomo politico lancia la Reformasi, una piattaforma di innovazioni che implicherà, per il professore, un diffuso crollo dei valori. Prima di Rais, spiega, sacrosanto era il rispetto verso gli Orang Tua, cioè i genitori, i Lebih Tua, ossia verso gli anziani, e verso i Di Tua Khan, ossia i superiori. Per effetto della Reformasi, secondo Windia, l’efficacia di questi parametri subisce una significativa flessione.

Proprietà privata e Diritto comunitario
Una domanda ulteriore riguarda la proprietà. A Bali, una società agraria tradizionale, è rimasto in vigore per secoli un regime di proprietà collettiva. Ancora fino alla Seconda Guerra mondiale, il lavoro non era salariato, bensì gestito comunitariamente. Resisteva l‘obbligo della corvee guidata dai Banjar, ma vigevano anche solidarietà e baratto. Oggi, che la Costituzione Indonesiana fissa la tutela della proprietà privata, che ne è delle regole precedenti?
Nella Costituzione Indonesiana, risponde Windia con grande chiarezza, c’è il riconoscimento dell’Adat Community. Ossia, le comunità di villaggio possono appunto rifarsi alle Leggi tradizionali. Resta la proprietà comunitaria delle terre del villaggio, affidata alla tutela del Banjar, restano le regole locali anche laddove differiscano in parte dala Legge dello Stato, resta in particolare il primato del sistema familiare e degli affari religiosi connessi. Ma bisogna vedere il tutto, va sottolineato, come un’integrazione delle varie componenti.

Una famiglia immigrata dal nord dell'isola si gode la sua pausa domenicale a Sanur, popolare resort del meridione balinese. Foto Renzo Garrone, 2018  

 

Quindi in ogni villaggio ci sono appezzamenti specifici che appartengono al villaggio stesso, ed altri che appartengono ai privati.
Facciamo degli esempi allora, dico. Posso comprare della terra a Bali, in un villaggio qualsiasi?
Come straniero non posso comprare nulla, è la risposta, la legge non lo consente. (Ovviamente ci sono sistemi per aggirare la cosa, gli stranieri possono affittare anche a lungo termine, e ci sono i prestanome anche se si tratta di una soluzione più rischiosa).
Come indonesiano invece posso. Da privato a privato è perfettamente lagale cedere ed acquisire terre e case. Ma vi sono porzioni di terra buona di villaggio, a Bali, che appartengono al Banjar: e quelle semplicemente non possono essere vendute. Legate come sono al modo di vedere la relazione tra dei, natura e comunita‘ specifico dei balinesi, venderle non avrebbe senso, e quindi l’Adat locale sancisce questo divieto.
In sostanza: il parere di un autorevole esperto in proposito è che sì, a Bali esistono molti conflitti sulla proprietà, ma sull’inalienabilità delle terre di villaggio affidate al Banjar non c’è nessun conflitto! E questo mi pare un fatto straordinario.

Sovranismo
Ma un problema, secondo Windia, consiste nell’aver consentito anche ad indonesiani delle altre isole, cioè a residenti di Giava, Lombok o Sumatra, di possedere una proprietà a Bali - il che equivale a svendere l’isola. Perchè costoro sono portatori di differenti valori culturali mentre la terra a Bali non è un’entità da sfruttare, ma un’entità viva, un corpus religioso, un sistema che fa tutt’uno con i culti, le credenze, l’inconscio profondo, gli spiriti degli antenati, gli dei del posto. Ci sarà sempre conflitto tra la Bali profonda, la sua mentalità ancestrale, ed il progresso come lo intendiamo oggi, che segue linee-guida essenzialmente materialistiche. E se non si capisce questo, a Bali, non si va da nessuna parte.

Ma l‘aver allargato le maglie della proprietà ad estranei, per Windia, ha generato un pasticcio di cui non si sentiva proprio il bisogno. Ci sono movimenti sovranisti anche qui, che si battono per una Bali dei soli Balinesi, e provano a tradurre in politica queste idee. Il senatore Wedakarna è diventato famoso per le sue posizioni che interpretano il fastidio, la contrarietà di tanti locali verso l’immigrazione che arriva dalle altre isole dell’Indonesia. Con slogan come Buy local, for local welfare uno se la prende anche con il povero immigrato giavanese. C’e‘ un termine balinese, Shukla, grosso modo equivalente a quello che è stato lo swadeshi di Gandhi in India. Un invito a consumare localmente che rafforzi identità ed economia locale. Un sentimento fondatissimo ma dai risvolti ambivalenti. In cui l’enfasi vien posta sul mantenimento della purezza dei balinesi e delle loro pratiche, uniche come abbiamo visto poichè fortemente interiorizzate. Al contempo, si sconfina su posizioni anti-immigrazione tout court.

Covarrubias
Pur risalendo al 1937, Island of Bali di Covarrubias resta uno dei libri più esaurienti e lineari sulla cultura dell’isola. “I balinesi sono agricoltori che vivono in piccole comunità, nelle quali colletti bianchi e mediatori d’affari non sono contemplati“ (l’autore si riferiva ai mestieri cui gli olandesi cercarono di piegare i nativi). “E la loro organizzazione sociale non è solo la più adatta ma è anche essenziale al loro modo di vivere. L’intera vita, la società, le arti, l‘etica balinese, in breve l’intera cultura, non può essere separata da quel set di regole che è stato chiamato la Religione di Bali, senza che vada in malora l’intero sistema. Se questo principio viene disturbato, il fondamento andrà distrutto“.

"Island of Bali" di Covarrubias, uno dei testi più interessanti mai scritto da un occidentale sul costume dell'isola. Covarrubias, scomparso nel 1957, era un musicista messicano con la passione dell‘antroplogia. Visse a lungo a Bali

 

E ancora. “Un balinese perde automaticamente il diritto essere chiamato balinese se cambia fede o se una donna sposa un musulmano, un cristiano o un cinese, perchè si lascia alle spalle la relazione con gli dei della sua famiglia spostandosi nella casa del marito. Nei community temples balinesi non ci sono idoli nè immagini da adorare. Essi sono frequentati da deità ancestrali, che lì vengono ospitate temporaneamente. Piuttosto che una chiesetta, separata dal quotidiano e nelle mani di gerarchie di preti per controllare e sfruttare, la religione di Bali appare come un sistema di regole di comportamento, un modo di vita. I balinesi hanno fatto coincidere il loro sistema religioso con la loro vita sociale, e da questa combinazione hanno desunto la legge (Adat) attraverso cui le forze soprannaturali vengono tenute sotto controllo dall‘armoniosa cooperazione di ciascuno nella comunità, allo scopo di rafforzare la salute magica del villaggio“. E quel magica deve far riflettere.

Covarrubias, un musicista messicano con la passione dell‘antroplogia, parlava inoltre di Bali nel 1937 come di una società non salariata, egalitaria. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti. La mentalità locale presenta ancora forti retaggi della tradizione, ma il potere che attribuiamo oggi al mondo al denaro, generatore principale dei simboli cui tutti corriamo dietro, ha scavato solchi profondi anche a Bali.

 

Sociologo, 30 anni, giavanese di Jogjakarta, Whayu Budi Nugroho insegna all’università Udhayana di Bali. Nella foto, con l'autore. Denpasar, settembre 2018. Foto Putu Ermawan

 

Whayu
Giovane sociologo, 30 anni, giavanese di Jogjakarta, Whayu Budi Nugroho insegna all’università Udhayana di Bali. Per conseguire una cattedra a Giava ha bisogno di alcuni anni di tirocinio fuori sede, così gli ultimi 4 li ha passati qui. Come outsider (arrivando da fuori le contraddizioni possono spiegarsi meglio) mi sembra ben posizionato per interpretare il complesso universo balinese. Chiedo anche a Wahyu del conflitto tra dettami comunitari ed emigrazione, che qui è un fenomeno dirompente e che mi sembra rappresenti un problema centrale nelle tematiche sociali dell’isola.
“Per i balinesi è fortissimo l‘attaccamento al Banjar“, esordisce lui. Che, conferma, mal si accorda con la vita moderna e la mobilità oggi prevalente. Tra le grandi contraddizioni del posto, questa è la prima. Esiste a Bali una sorta di Servizio Civile volontario, si chiama Ngayah. E‘ obbligatorio ed implica una partecipazione ai momenti sia simbolici che pratici della vita comunitaria. Si svolge sotto la supervisione del Banjar.
La seconda contraddizione: i balinesi sono agricoltori tradizionali, per loro l’agricoltura è integrata col sistema sociale. Ma lo sviluppo in una certa direzione, soprattutto quello così impostato da Suharto negli anni 60, che trasformò Bali in destinazione turistica, determina attualmente un forte squilibrio. Poichè le occupazioni oggi vengono determinate in primo luogo dalle esigenze dell’industria turistica, che rappresenta l‘attività dominante. Si creano spaccature, conflitti. Un problema e‘ la (pesante) mercificazione. Facciamo un esempio eclatante: oggi gli operatori turistici ti portano nei templi, ma a pagamento“. (A Bali si vende un pò tutto. Si vendono anche gli spettacoli di danza sacra, si può pagare per assistere ai funerali, eccetera). “Noi sociologi siamo contrari, ma…“
Gli esempi di dollarizzazione spinta e di banalizzazione si sprecano. E continuano ad aumentare. Un paio di testimonianze personali. Le facce e gli atteggiamenti di coloro che per conto del Banjar gestiscono templi molto visitati, come l’iconico Pura Ulun sul lago Danau Bratan, una delle immagini prevalenti di Bali, rivelano noia, disaffezione, indifferenza, qualche volta rapacità. Assurdo il permesso esteso a chiunque - a pagamento - di bagnarsi nelle fonti sacre di Tirtha Empul a Tampaksiring. Così in un luogo sacro, intimo e prezioso, ragazzine di tutto il mondo possono passare ore a farsi dei selfie e a ridere sguaiatamente. Ma gli esempi di mercificazione e banalizzazione sarebbero centinaia.

Le terme di Banjar, vicino Lovina, Buleleng Regency, nel nord dell'Isola di Bali. Foto da internet

 

“Nel 2000 è nato un movimento balinese contro questa mercificazione galoppante“ - prosegue Whayu – “chiamato Ajeg Bali. Grazie alla sua influenza sono state prese delle decisioni, separando aspetti sacri da altri. Sono sacre alcune danze, per esempio, altre no“.
Prendiamo il Kecak. Per quanto in questa danza si attinga alla tradizione induista classica, con il coro che si trasforma nell’esercito delle scimmie guidato da Hanuman, una delle tracce chiave del Ramayana, alla sua evoluzione ha contributo negli anni ‘30 un gruppo di artisti europei tra cui Walter Spies. Oggi sappiamo che il Kecak, forse per queste contaminazioni, non viene più considerato un happening sacro. Il gruppo di artisti di cui Spies faceva parte produsse nel 1929 il film Black Magic, girato proprio qui.

“Sotto Suharto, il cuore degli investimenti a Bali diventa Denpasar“ – continua Whayu – “si depotenziano il nord e le altre regioni dell‘isola. I pianificatori del tempo pensavano che vi sarebbe stato un effetto-traino, che la ricchezza che affluiva a sud sarebbe filtrata anche altrove, che il reddito indotto dal turismo si sarebbe redistribuito, ma questo non è successo“. Anzi, dopo il 1971 con l’apertura dell’aeroporto tra Kuta e Jimbaran, di fatto a Denpasar, lo sbilanciamento degli investimenti a favore del sud dell’isola s’è imposto con forza. “Per rispondere alle critiche il governo ha promesso l’apertura di un altro aeroporto da costruirsi a nord, nella regione di Buleleng“ (dove per secoli ha gravitato il baricentro di Bali, la capitale era Singaraja mentre il sud era disabitato: oggi le cose si sono capovolte). “Sono state promesse anche nuove strade che colleghino meglio il tutto. Ma non si è ancora andati al di là dei proclami. Così oggi Denpasar è un global village, una cittadona di 900.000 persone dove regna una mentalità da villaggio“ – scherza Whayu – “Internazionale perchè ci passano turisti da tutto il mondo. Ma anche national destination, nel senso che qui lavorano persone dal'intera l’Indonesia, essendo i salari alti e l’offerta di occupazione dinamica. Potenzialmente si tratta di un punto a favore, ma il problema è che tra gli immigrati moltissimi non sono istruiti, e costoro finiscono ad ingrossare le file del settore informale“. Il che significa lavoro nero, non registrato, svolto in condizioni difficili, non censibile. Per esempio nello street food. Il risultato sono povertà a sfruttamento.

Cameriera immigrata nel sud di Bali, in una resort turistica. Foto da Internet

 

Ma per concludere, Whayu ha delle speranze. “Bali dispone di tre punti di forza“, sintetizza. Tre istituti peculiari della sua vita sociale, il Banjar, il Subak e l’Awig Awig la rendono diversa, e rimarrà sempre un posto unico al mondo se queste pratiche rimarranno vive, sentite, autentiche. Del Banjar abbiamo detto, nel bene e nel male àncora la gente alle sue usanze e ai villaggi. Il Subak è il sistema di ripartizione delle acque sul territorio agricolo riconosciuto nel 2012 quale Patrimonio dell’umanità UNESCO (vedi altro articolo), per via del suo ingegno e dell’equanimità. Ma, aggiunge Whayu, anche perchè il Subak è tutt’uno con il genius dei luoghi, che viene quindi riconosciuto e
rispettato dalla popolazione. Subak inoltre implica un concetto molto moderno, il co-working.
Infine, c’e‘ l’Awig Awig, le regole locali che i singoli villaggi possono darsi, che garantiscono loro notevole autonomia“.

Pragmaticamente, io penso che bisognerebbe investire nelle altre regioni dell’isola, oggi trascurate, in altri settori e non solo nel turismo. Chiedo a Whayu cosa ne pensa. “Creazione di lavoro alternativo? Molto difficile farlo a Bali al di fuori del turismo“.
Putu Ermawan, il giovane laureato in sociologia di Munduk, mi racconterà di altri investimenti tentati altrove nell’isola, nel cacao, nella pesca. Che restano però tutti legati al settore primario, dal basso valore aggiunto. “Per questo qui a Bali hanno tanta paura del terrorismo“ - dice Whayu “che nel 2002 con le bombe di Kuta mise in ginocchio l’isola. Perchè a Bali il turismo è monocoltura, l’unica attività che garantisce ricchezza. Non è così nelle altre isole dell’isole dell’Indonesia“.