Bali è un’isola piccola. Preziosa, raffinata ed unica forse perchè così piccola: 144 km da est a ovest, in larghezza, solo 80 km in direzione nord-sud. Per Vickers, nel 2000, la popolazione ammontava a 3 milioni di persone. Oggi viaggiamo sui 4.200.000 abitanti. Ma sulla sola Denpasar, il capoluogo, si dice gravitino almeno in 900.000.

“E‘ dagli anni 60 che Bali attrae come un magnete turisti ed expats“ – scrive Mara Accettura. “Una volta quando imperversavano i full moon parties nei crateri dei vulcani ci venivano solo hippies, avventurieri e celebrità (…). Dagli anni 80 il flusso è cresciuto in modo esponenziale e oggi quella scena sparuta un pò wild, artistica e bohemien ha lasciato il posto al turismo di massa (…). Il numero di turisti è sempre crescente: 5,5 milioni nel 2017, 7 milioni attesi quest’anno (2018), su una popolazione di 4.200.000 persone, più 30.000 expat“.

Recupero alcune mie vecchie note di una dozzina d’anni fa, e vi trovo le seguenti riflessioni: (…)“sembra che Bali, priva di industrie, viva solo di turismo, agricoltura ed artigianato. Quanto è vero tutto questo? Vedremo di scoprirlo“. 

 

Ebbene che l’isola campi solo di turismo, agricoltura ed artigianato è del tutto vero. Il problema è che il bellissimo entroterra, dove il turismo può essere a misura d’uomo, con le risaie e l’agricoltura sostenibile, con un culto del paesaggio paragonabile alla Toscana, sembra non basti assolutamente a tutta la gente del posto che cerca lavoro. Nelle campagne, se l’occupazione cresce, è ancora per qualche nuova forma di turismo. Ma da lì non si esce, non si diversifica. Per il resto la situazione langue, il lavoro non si crea. Così, tanti balinesi dei villaggi dell’interno e del nord, celebri per una qualità della vita riconosciuta anche dall’UNESCO, debbono spostarsi verso la capitale Denpasar e verso le resort towns di Kuta, Legian e Seminyak da un lato, Sanur e Nusa Dua dall’altro – in breve verso la Regency di Badung, che ospita tutte queste località – per lavorare e studiare. Dando vita a un pendolarismo cronico verso i divertimentifici che è l’altra faccia del boom del turismo.

Sicuramente non c‘è a Bali vera industria. Non c’era allora, non c’è oggi. Anche a causa delle lentezze della burocrazia, non sono mai arrivati quegli investimenti (esteri, per esempio, nel manifatturiero, per esempio) che avrebbero consentito uno sviluppo per l’export, e moltiplicato l‘offerta di lavoro. Non sempre questa è una ricetta ideale, peraltro. Ma su cosa puntare, altrimenti? Come far campare tutta questa gente?

Va detto che l‘identificazione di Bali come destinazione turistica per vocazione, non vale solo per l’occidente, per i giapponesi e per i nuovi turisti dalla Cina o dall‘India. Preferiscono Bali – a must see destination – anche i vacanzieri della stessa Indonesia, per i quali si tratta della resort island per eccellenza; e in fondo l’Indonesia non è mica uno staterello, ma il quarto paese al mondo per popolazione. E il loro afflusso è consistente. L’appeal che quest‘isola esercita è ormai un dato di fatto globale.

Cascate di Blangsinga, Kemenuh,  Bali, Indonesia, settembre 2018. Turisti locali, che provengono da altre isole indonesiane. Foto Renzo Garrone

Del resto, il turismo a Bali ha una lunga storia. Il fenomeno si potrebbe definire in linguaggio tecnico maturo, non fosse che sta esplodendo. Voluto già dagli Olandesi alla fine dell‘800, fu poi recuperato da Sukarno all’indipendenza del 1949, e rilanciato infine da Suharto negli anni 60. Dopo la presa del potere nel 1965, con le sue liberalizzazioni economiche a vasto spettro, quest‘ultimo adoperò il turismo nell‘isola per raddrizzare non solo l‘economia locale, ma quella dell‘Indonesia intera.

Il problema è che qui, nella Badung Regency, siamo ormai alla monocoltura turistica. E il fenomeno ha diverse implicazioni.

Ulu Watu, Bali, Indonesia, agosto 2015. Presso il tempio di Ulu Watu, all’estremita meridionale dell’isola, legioni di turisti si assiepano al tramonto per assistere ad una performance di Kecak. Il kecak e‘ una danza semi-tradizionale, peculiare dell’isola. Foto Renzo Garrone

Primo. Bali è piccola ma non piccolissima. Se uno lavora a sud, deve anche abitarci. Ciò significa trovare una stanza, condividerla, pagarla. I ragazzi e le ragazze che arrivano qui per lavorare e studiare non navigano certo nell’oro: le condizioni di vita sono piuttosto difficili. Sovraffollamento è la parola chiave. Nella vita quotidiana. Nel traffico, negli alloggi, nelle università e nei luoghi di lavoro. Una situazione pesante che stride con il lusso e l’immagine armonica offerta dalle resorts, dove parecchi di loro trovano occupazione. Qui, per una stanza si spendono cifre non folli per un occidentale, ma pazzesche per un locale.
Una camera doppia di lusso costa dalle 700.000 al 1.200.000 rupie a notte, ma si trovano ottime sistemazioni anche a 350.000/400.000 rupie a notte. Con questa cifra, diciamo con 1.000.000 di rupie, ossia 62 euro, un balinese comune si paga l’affitto di un mese e un bel po‘ di nasi goreng (il piatto nazionale).

Secondo. La Badung Regency non solo è relativamente grande, ma anche trafficatissima. I pendolari abitano quasi tutti a Denpasar (situata al centro di questa zona) e due volte al giorno, avanti e indietro, si spostano verso le spiagge per andare a lavorare. A botte di 10,15, 20 km per tratta. Lo fanno soprattutto in moto. Il pendolarismo quotidiano di Bali è quindi massiccio, e genera enormi problemi di traffico (essendo però le distanze abbordabili, questi immigrati possono rientrare ogni tanto, rapidamente, al villaggio d’origine).

Denpasar, Bali, Indonesia, settembre 2018. La grande tangenziale attorno al capoluogo, nel sud dell’isola, registra quotidianamente un traffico pazzesco. Foto Renzo Garrone

Ma a Bali non si registra immigrazione solo dalle zone periferiche dell’isola. Vi si arriva anche dalle altre isole indonesiane (Giava su tutte, i giavanesi sono un 7% della popolazione). Ci sono gli expat stabilitisi qui dall’occidente (30.000), tra i quali numerosissimi gli italiani. Coi loro lavori creativi. Ma in un calderone dinamico come la Badung Regency, un vero melting pot, c’è un pò di tutto poichè serve di tutto. Servono i quadri di un certo livello, con padronanza delle lingue, abilità a comunicare, capacità di erogare servizi sofisticati per il turismo. I tanti giovani brillanti che l’Indonesia sforna, per i posti che necessitano di un qualche spessore intellettuale – banalmente, il receptionist in un buon hotel – qui trovano pane per i propri denti e salari adeguati.
Sul fronte dello studio, la Udhayana University di Denpasar è una delle migliori del paese.E verso di essa si dirigono da fuori sia docenti che studenti.
Serve però, nella Bali del sud, anche la semplice manovalanza fornita da chi non ha studiato. La manodopera non qualificata che si presta ai lavori più umili, quelli alla base della piramide sociale.

In buona sostanza, a Bali è visibilissima la contraddizione tra due modelli di sviluppo opposti, che coesistono. Da un lato il modello divertimentificio, col sud dell'isola (la Badung Regency) calamita del lavoro, che accoglie immigrazione.
Dall’altro il modello delle campagne balinesi, con la sua promessa di equilibrio, così rara nel mondo di oggi. Campagne, risaie, villaggi e comunità dove è nato e vige ancora l’Adat, il diritto tradizionale che integra una religiosità peculiare con la partecipazione di tutti alla vita sociale - partecipazione basata su una appartenenza alla comunità ancora molto sentita. Le aree rurali di Bali possono vantare istituti comunitari vivi e vegeti come il Banjar (consiglio delle famiglie appartenenti al villaggio); e come il Subak, in luoghi dove l’agricoltura è da sempre il modus vivendi, e dove la distribuzione delle acque con caratteri di equità consente un’armonia tuttora mirabile, basata sul co-working (ma il Subak implica anche riconoscimento, comprensione e rispetto dello spirito dei luoghi).

Villaggio dell’interno, Badung Regency, Bali, Indonesia. Seduta di un Banjar, consiglio delle famiglie appartenenti al villaggio. Foto da internet

Il tutto, questo complesso di fattori, è stato riconosciuto dall'UNESCO come bene intangibile, e circoscritto ad una vasta zona del centro di Bali. E‘ senz’altro qualcosa di buono e semplice verso cui dovremmo andare tutti, o meglio tornare, se il mondo girasse per il verso giusto. Ma nei grandi numeri, nei fatti, in quello che succede, le raccomandazioni UNESCO vengono disconosciute giorno per giorno da buona parte degli abitanti per primi, costretti a emigrare.

In gioco a Bali sono anche la sostenibilità, mito del nostro tempo, contro la frenesia (accompagnata da inquinamento e scadimento di valori). Purtroppo sta vincendo la seconda.

Munduk, Bali, Indonesia, agosto 2016. Risaie a Munduk, nell'interno montuoso dell'isola. Foto Renzo Garrone