Tra Udaipur e Kashmir
Udaipur, Rajasthan, 5.00 del mattino del 2 agosto 2019. Appena fuori dall’albergo - sono 30 km fino all’aeroporto, vado a prendere il mio volo per Delhi - il taxista che mi carica esulta per le notizie che arrivano dalla radio. Il “governo del fare” di Modi sta annunciando chissà cosa per il Kashmir: regole diverse, investimenti, più turismo, traduce lui dall’hindi. Così finalmente potrete andarci più facilmente, dice il tassista, un ometto di mezza età certamente costretto ad una vita dura in macchina, tutti i santi giorni in mezzo al traffico impietoso dell’India. “Visto cosa è successo in Kashmir?” - mi apostrofa concitato – “Il governo Modi ha cambiato tutto! Finalmente potrete andare da quelle parti senza più pericoli (il soggetto saremmo noi, i turisti) perché non ci sarà più terrorismo!”
Non ci capisco granchè, l’eloquio del guidatore nel classico broken english indiano lascia spesso le frasi senza un senso compiuto. Ma la più elementare delle constatazioni è che qui vanno tutti pazzi per Modi. Sono in India da una dozzina di giorni, ho chiesto a un sacco di gente cosa ne pensasse di questo primo ministro, e le risposte sono state univoche. Girano tutte intorno a frasi tipo “quello che ci voleva per l’India”, oppure “la persona e’ onesta, gran lavoratore, adesso finalmente le cose si fanno”. Un’ubriacatura collettiva. Così ho deciso: ora domando a tutti quelli con cui posso intavolare un discorso perché l’hanno votato – dato che l’hanno votato in massa, per il secondo mandato assai più che per il primo. Questo è certo. E come inizio non c’è male.
Bangalore. Grande entusiasmo per la Festa del 26 gennaio, che commemora la Repubblica indiana nata nel 1947. Foto Renzo Garrone
Insomma, tornando a stamattina a Udaipur: dato che ancora non so cosa sia accaduto in Kashmir, d’acchito cerco di ordinare le informazioni che mi passa il tassista. Non mi attacco allo smartphone per verificare, sia perché alle 5.00 del mattino non è sano, sia perché uno smartphone, serenamente, io non ce l’ho. Come dice un amico, ho il telefono di Meucci. Però mi colpisce come a tutte le mosse di Modi segua un consenso popolare quasi isterico. Sebbene, ça va sans dire, questo consenso vada di solito a braccetto con una dose di disinformazione paurosa- che si percepisce al volo.
D’altra parte i messaggi passano a senso unico. Difficile che una certa pluralità di voci riesca a penetrare nella corteccia dell’indiano medio povero, che sa a malapena leggere e scrivere. Quanto a libertà di stampa, secondo Reporters Sans Frontieres ed il loro World Press Freedom Index 2019, l’India è al 140°posto nel mondo (su 180 nazioni) in termini di libertà di stampa. Mica messa tanto bene.
E’ quanto denuncia lo scrittore Pankaj Mishra, collaboratore tra gli altri del New York Times, del The Guardian, del New Yorker, del Washington Post, del Boston Globe, di Time. Secondo Mishra con Modi siamo al trionfo delle fake news.
Restando al Kashmir per esempio, non importa se la regione aveva già visto sospendere la propria autonomia varie volte in questi decenni, senza che la intifada dei Kashmiri demordesse minimamente. Stavolta la mossa di Modi, che cancellava una misura Costituzionale in vigore da 60 anni, e che certo ha un impatto simbolico forte, viene percepita come il colpo di spugna di cui c’era bisogno da parte di un uomo di potere finalmente assertivo. L’uomo che non lascia incancrenire le cose – non importa poi cosa faccia. L’uomo che agisce nel nome e nell’interesse di un’India per i veri indiani, di un “prima gli indiani” che suona sinistro, negli stessi mesi in cui in mezzo mondo risuonano slogan simili – in Italia quelli urlati del salvinismo – altrove quelli di Putin, Trump, Bolsonaro, e di altri uomini politici che agitano gli stessi fantasmi, usano le medesime armi. Purtroppo, la revoca dell’autonomia del Kashmir non ha tenuto in minimo conto né il parere degli abitanti né quello del Pakistan, che infatti non l’ha presa bene, vista la paranoia che alligna tra le due potenze (entrambe nuclearizzate) del subcontinente. India e Pakistan si spartiscono e governano dal 1947 una regione divisa in due – il Kashmir, appunto – la quale in realtà preferirebbe non appartenere a nessuno. Cioè, vorrebbe l’indipendenza. Modi abile demagogo, quindi?
Il Primo Ministro indiano Narendra Modi, classe 1950, in sella dal 2014. Foto da internet
Modi migliora le cose, dicono tutti, e un’avvisaglia è rappresentata senz’altro dalla quantità di lavori pubblici in corso d’opera, che fervono dappertutto in quest’India che cresce del 7% annuo. Intanto però, la mia strada di stamani tra Udaipur e l’aeroporto è la classica gimkana indiana, la carreggiata ostaggio di una nuova arteria in costruzione, che occupa tre quarti dello spazio percorribile. L’ampliamento è finalizzato alle 6 corsie, spiega l’autista entusiasta di Modi. Si tratta d’altronde dell’autostrada tra Delhi e Mumbai. Se i lavori pubblici sono una spia del dinamismo economico, beh allora l’India si muove eccome: cantieri ce ne sono tantissimi un pò in tutto il paese, e con Modi paiono essersi moltiplicati. Anche se in India, sul fronte di uno sviluppo moderno, le infrastrutture restano il punto debole.
Cantieri a parte, è sul piano politico e ideologico che sorprende il credito di cui gode questo primo ministro indiano, tanto discusso all’estero (non si dimenticano i pogrom del 2002 contro i mulsulmani in Gujarat con Modi primo ministro di quello stato), quanto osannato in patria. Modi è entrato col vento in poppa nel suo secondo mandato, senza che il primo abbia comportato grandi successi – anche se alcuni risultati concreti (tra questi l'introduzione della tassa GST e vari aspetti della Against Open Defecation Campaign, di cui parlo nei prossimi articoli di questa serie) sono arrivati. Come spesso accade, perchè così che oggi si fa, la sua è una politica di continui annunci, di occupazione dei social e dei media.
Ma stiamo all’evento del giorno, il Kashmir. Dopo qualche ora, messe le mani con calma sui giornali e sul web, apprendo cosa è successo. Modi ha sottratto alla regione, appunto, gli speciali diritti di autonomia dei quali essa godeva. In nome della “necessità di fermare terrorismo e separatismo”. Dopodichè dal lunedi 4 agosto 2019, giorno in cui le nuove misure sono state varate, centinaia di persone sono state arrestate. La decisione del governo Modi ha declassato il Kashmir indiano da Stato della federazione, com’era a pieno titolo, a Union Territory, trasformandolo cioè in una regione a sovranità limitata, amministrata dal governo di Delhi. Una president rule che in realtà c’era già da molto tempo, anche coi precedenti governi compresi quelli del Congress. Una president rule che è rimasta in vigore negli ultimi 30 anni, vado a memoria, per la maggior parte del tempo. Una misura volta al controllo della rivolta degli abitanti contro quella che viene vissuta, a maggioranza, come l’occupazione indiana della loro Valle. Ma non importa, per la grande massa degli indiani – come il mio tassista – si tratta di un colpo d’imperio, di una mossa nella giusta direzione, che fa sentire vincente l’uomo della strada. Modi è l’uomo forte che decide rompendo gli indugi; e per far presa sull’opinione pubblica l’importante sono gli annunci.
Il Kashmir indiano è un vasto aggregato da 4 milioni di abitanti nella Valle del Kashmir propriamente detta (al 95% musulmani), ed abitato anche da altri 3 milioni (a maggioranza indù) nel distretto di Jammu. Modi in campagna elettorale aveva promesso di abrogare l’Art.370 della Costituzione, che garantiva a questa zona una indiscutibile potenzialità autonomista: al di là di difesa, politica estera e comunicazioni, da sempre in mano a Delhi, impediva per esempio agli indiani qui non-residenti di acquisire delle terre nella regione, di stabilirvisi in permanenza, di trovare lavoro nell’amministrazione locale, di studiare sul posto con borse di studio. Tutte misure classicamente protezioniste a favore di un’autonomia Kashmira poi spesso violata nei fatti (gli Indiani di fuori sono appunto visti dalla maggior parte dei Kashmiri come stranieri, l’esercito di Delhi – 40.000 i soldati sul posto – come una forza d’occupazione).
Dopo la revoca dell’autonomia è partita subito entusiastica - riferiscono gli osservatori - la vendita delle terre, la corsa al loro acquisto da parte di non-residenti nella Valle.
Molti i commenti favorevoli della stampa locale, meno quelli contrari - ma durissimi.
La scrittrice e attivista Arundhati Roy, sorta di coscienza critica dell'India moderna. Foto da internet
Forse il più duro quello di Arundhati Roy, sul New York Times, che sul Kashmir non ha mai risparmiato - come è nello stile del personaggio - commenti al vetriolo sulla politica di Delhi, guadagnandosi pure una denuncia per apologia di Kashmirismo (in India c’è una legge, simile a quella italiana sull’apologia di fascismo, che impedisce pareri opposti alla narrazione di regime di un Kashmir parte integrante della Federazione indiana): “(…) la durezza dell’approccio di Modi nel primo mandato ha esacerbato la violenza in Kashmir. Ma dopo due mesi (dall’inizio) del secondo mandato, il suo governo (…) ha gettato un fiammifero acceso in una polveriera. Nell’ultima settimana di luglio sono stati trasferiti in Kashmir altri 45.000 militari, col pretesto che c’era una minaccia terroristica pakistana per l’Armanath Yatra, pellegrinaggio annuale durante il quale centinaia di migliaia di devoti indù si recano in Kashmir. Il 1°agosto alcune reti televisive indiane hanno annunciato di aver trovato lungo il percorso del pellegrinaggio una mina con il marchio dell’esercito pakistano. Il 2 agosto il governo ha chiesto a tutti i pellegrini di lasciare le Valle. Sabato 3 agosto i militari avevano occupato la Valle intera. Ed il 4 agosto i Kashmiri erano costretti a chiudersi in casa, e tutte le reti di comunicazione avevano smesso di funzionare”. Modi ha varato il coprifuoco. Purtroppo ancora oggi le comunicazioni con schede cellulari prepagate, sms ed internet, sono bandite in Kashmir.