Altura straordinaria, questa dell’ennesimo tempio dell’India dedicato a Rama e ad Hanuman, dove lo staff è costituito di scimmie. Si raggiunge dal villaggio di Hampi con l’attraversamento in barca del fiume Tungabadhra, nei giorni d’estate gonfio delle piogge monsoniche, limaccioso, la corrente decisa. Dieci rupie a testa, ma i sadhu vanno gratis, al solito. Ecco uno di questi coloratissimi eremiti itineranti. Prende anche lui posto a bordo, nel mattino. Gli è bastato ammiccare con gli occhi al barcaiolo, e la risposta di quest’ultimo è stata una leggera inclinazione del capo, quasi impercettibile. Riscontro affermativo. Gli occhi del sadhu sono furbi, quelli di chi deve cavarsela tutti i giorni per strada, senza quattrini, campando di elemosina.
Sul fiume, oltre all’unica barca a motore per il river crossing che abbiamo usato oggi, lavorano vari coracles. Sono grossi gusci di bambù che i rematori conducono da un lato all’altro del Tungabhadra, ma solo quando il monsone diminuisce e la corrente si fa meno forte. Il pericolo principale sui mezzi di trasporto, in tutta l’India, resta il sovraccarico, con conducenti che non sanno dire di no alla folla. Da qui, le news apocalittiche di bus nelle scarpate con centinaia (!) di persone a bordo, e di barchette travolte dai flutti di fiumi che, asfittici nella stagione secca, diventano piccoli Bhramaputra sotto l’alito potente della stagione delle piogge.
Dal guado vicino al bazar di Hampi per andare verso il tempio di Hanuman, a piedi fino a un’altra carrozzabile asfaltata, la strada sterrata fiancheggia i campi per un paio di km. Nel tardo mese di agosto il paddy delle varietà ibride che qui si coltiva, cioè il riso comune, è rigoglioso, verdissimo. Intanto, gruppi di contadini arano intensamente altri appezzamenti (fino a qualche anno fa solo coi buoi, oggi oltre ai buoi compare anche qualche trattore), e le donne trapiantano. In alcune zone si ara, in altre si trapianta, in altre ancora le spighe sono già alte. In generale, il trapianto è possibile appena arriva l’acqua delle piogge monsoniche, la pianta poi cresce durante i mesi più umidi, e si raccoglie verso ottobre all’inizio della stagione secca. Ci vorranno dunque altri mesi prima del raccolto.
Hampi, Karnataka, India del sud. La campagna attorno al sito archeologico vista dalla sommmità del Rama Temple. Un territorio semidesertico ingentilito dall’acqua copiosa del Tungabhadra, coltivato a risaie e bananeti. Foto Renzo Garrone
Al di qua ed al di la' del fiume
Appena dopo il guado, sull'altra sponda, ecco spuntare nella campagna una ventina di guest houses e di resorts a basso costo, come ne costruiscono in India: si tratta di bungalows sotto le palme, e finchè così restano va bene, dal punto di vista paesaggistico. Il taglio è inequivocabilmente fricchettone, ma pazienza. In agosto tutto è fermo, chiuso, quasi nessun frequentatore. Però d’inverno, che qui è alta stagione, la zona si anima. Arrivano i turisti. Che in maggioranza, da un paio di decenni, sono israeliani molto giovani. Se ne vedono tantissimi su queste rotte, per via essenzialmente del basso costo. Ragazzi e ragazze israeliani, coetanei, che a frotte lasciano il proprio paese e vengono in India e in Nepal per lunghe permanenze, popolando le zone turistiche (penso a Pushkar, a Manali, oltre che a Kathmandu) e riproponendo qui la consueta aggregazione delle comunità all'estero. Ossia facendo quadrato attorno alla propria lingua, al proprio cibo, alle modalità della propria cultura (o sottocultura). Poco importa si tratti di lavoro o di svago: ricreano gruppetti di affinità, cui dedicano tanta parte del proprio tempo di viaggio. Questo sentiero oggi deserto, sarà allora, in stagione, percorso da jeep.
In realtà, il turismo ad Hampi ha già generato numerose controversie. Esiste appunto una Hampi al di qua ed una al di là del grande fiume. Nell'area subito al di là d’inverno - raccontava la gente in paese - si raccoglievano fino a qualche anno fa i giovani adepti dei rave parties. La gente di Hampi Bazar non li amava per nulla, quella di al di là del fiume li sopportava comunque in nome del reddito che se ne ricavava, ma la musica sparata ad alto volume di notte dava fastidio, si sentiva anche dall’altra parte. Poi intervennero le autorità e i rave vennero banditi. Oggi su questo fronte la situazione è tranquilla.
La differenza è enorme tra gli hippy degli anni ‘60 che si accampavano nei remoti templi di pietra a fraternizzare con i sadhu, ed i turisti di oggi, di tutt'altra pasta. Anche se ad Hampi non sono ancora arrivati i grandi alberghi e l’accoglienza resta piuttosto semplice. Il turismo, che anche per via dell’assenza di grandi alberghi da queste parti resta specialmente quello occidentale a basso costo, rappresenta comunque la risorsa principe di una zona povera, per il resto fondamentalmente agricola. Ed il suo hub in quest’area è da sempre Hampi Village, borgo cresciuto all’ombra del grande Virupaksha temple. Qui la gente della zona aveva costruito guest house e ristorantini, messo su negozietti e banchetti, ricreato tra le rovine archeologiche, ai margini del vialone sterrato che al tempio conduce. Un paesello in grado di ospitare (anche) i ragazzi viaggiatori, strana fauna che da sessant'anni ormai viene a svernare in India. A passare le vacanze, a farsi le ossa nel sud del mondo dopo la laurea, a spendere in questo modo una parte del proprio gap year, del proprio periodo sabbatico.
Verso il tempio di Rama
Quando il sentiero termina giungiamo su un nastro di strada asfaltata (soltanto da una dozzina d’anni, ci dicono) che si snoda verso nord. Una strada di campagna dal traffico minimo. Corriere locali, qualche trattore, carri a trazione animale, rarissime auto. Si respira aria di pace, ed è proprio il caso di dirlo. Mucche e bufali che la fanno da padrone. La solita India rurale e antica, con tanta gente nei campi, che spedisce in mezzo al verde a campare in natura pastorelli e pastorelle, giovani e vecchi. Compaiono, è vero, questi trattori, potenti e lucidi, quasi arroganti, ed è un’importante novità. E tante abitazioni in questo tratto sembrano risistemate, verniciate come si deve, mentre la gente appare in condizioni decenti – negli anni ‘60 sarebbe stata miseria assoluta. Una cosa va detta, rispetto alle valutazioni a caldo: quando sei in India da qualche mese, ti abitui, e non noti più la differenza delle condizioni di vita tra l'occidente e quest'universo differente – o almeno non ti sembra più così stridente. Ma se sei qui da qualche giorno solo, come me soggi, anche fosse per la centesima volta, non importa. Questa differenza domina ancora tante riflessioni.
L’acqua, e in queste campagne vicino a un grande fiume ce n’è tanta, determina la ricchezza della zona. Se guardi le spighe che iniziano a gonfiarsi, le casette nuove - ormai non più catapecchie - sotto gli alberi, i trattori al riparo di capanni tirati su apposta per proteggerli, i visi non più denutriti, il silenzio e l’armonia di scenari senza dubbio bucolici, provi persino soddisfazione. Una moderata soddisfazione, chiaro. Ma in questo mondo di disastri è qualcosa. E però, mi dicono, le braccianti dei villaggi vicino trapiantano il riso dalle 10 del mattino alle 5 del pomeriggio per pochissime rupie al giorno.
Hampi, Karnataka, India del sud. Un albero secolare di frangipani all'interno del Vitthaya Temple, uno dei principali del grande sito archeologico. Foto Renzo Garrone
L’Hampi dell’Impero Vijayanagar
L’Hampi gloriosa del passato fu capitale di un Impero fiorito per circa tre secoli, e giunto all'apice attorno al 1500 dopo Cristo. La sua storia moderna, la sua nuova vita, passa invece per la zona archeologica istituita su oltre 4000 ettari dopo l'Indipendenza del paese, allo scopo di salvaguardare le rovine dell’antica città, disseminate su un territorio di grande carattere. I visitatori vengono infatti attratti anche da un paesaggio particolare, bizzarro ed al contempo ed idilliaco. Cosparso, in modo splendidamente anarchico, di rocce antichissime, eruttive, levigate, come canditi sul mare verde dei bananeti e delle palme. Perché ad Hampi c’è l’ambiente di base, semidesertico, delle pianure del Deccan – le precipitazioni sono piuttosto scarse – ma c’è anche l’acqua del fiume Thungabadra. Adesso, nella stagione delle piogge, il grigio delle rocce risalta contro il verde brillante, traslucido, dei campi di riso irrigui e delle piante. Uno scenario da oasi. E tenuto conto della conformazione geologica del suolo, e del clima arido della regione, proprio di questo si tratta. E' la combinazione dei due fattori, dunque, quello monumentale e quello paesaggistico, a rendere Hampi unica.
La zona archeologica fu istituita dall’Archeological Survey of India a partire dagli anni ’50 del novecento e successivamente adottata dall’UNESCO quale World Heritage Site, a coprire i monumenti sparsi nella campagna appartenuti alla capitale dell’Impero Vijayanagar, potente regno induista che unificò tutta l’India meridionale in quei secoli - tra il 1336 e il 1646. Ma già nel 1565 Hampi, dove si trovano le rovine più imponenti, era stata conquistata dai musulmani dopo una aspra battaglia conclusasi catastroficamente per l’impero - da essi razziata, e infine abbandonata. E così rimase il luogo fino alla fine del secolo scorso. Dal 2001 una legge apposita, l’Hampi World Heritage Area Management Authority Act, deve occuparsi della protezione e del management dei 4187,24 ettari di questa World Heritage Area.
La autorità coinvolte oggi nella protezione sono il Governo centrale Indiano, la Archeological Survey of India (ASI), e il Governo dello stato del Karnataka cui Hampi appartiene - tutti congiuntamente responsabili della gestione dei 56 monumenti del sito. Il quartier generale dell’ASI è situato a Kamalapuram, villaggio ai margini della zona archeologica.
Hampi, Karnataka, India del sud. Decine di piccoli Lingam ed una sola Yoni, antichi simboli di fecondità pre-indusimo, scolpiti nella roccia lungo il fiume Tungabadra. Il luogo è meta di pellegringaggio. Foto Renzo Garrone
La distruzione ("cambio d'uso") di Hampi Village
Di quell’impero si ricorda il fatto che un'amministrazione efficiente ed intensi scambi commerciali marittimi introdussero nuove tecnologie, tra cui sistemi di controllo sulle acque, d'irrigazione e di scavo pozzi, mentre alla corte fiorivano danza, musica (la musica detta carnatica) e letteratura.
Oggi, l’area da proteggere è vastissima, mentre numerosi sono gli stanziamenti umani ai margini e al suo interno. Un punto nevralgico però si trova attorno al grande Virupaksha Temple, che coincide con il cuore della zona archeologica, e che si affaccia su uno dei tratti ove il fiume è facilmente guadabile. Proprio qui era cresciuto negli anni '60,'70 ed '80 il borgo di Hampi Village, su un’estensione effettivamente compresa entro i confini protetti.
E qui, la controversia dei rave parties, poi cessati, può essere considerata come un evento di colore, se paragonata al più grave tra i conflitti che sia mai divampato da queste parti in epoca moderna. Per restituire la zona archeologica alle sue funzioni, le autorità hanno infatti demolito gran parte del villaggio – di Hampi Village, appunto, a due passi dal tempio – dopo che i decenni di vita dello stesso avevano significato business, crescita del turismo ed investimenti, tutti operati da piccoli imprenditori locali. Costoro, ma anche gli abitanti in generale, avevano costruito alla spicciolata, un pò alla volta come veniva, ma abusivamente, senza autorizzazioni. Come del resto succede spessissimo in India. Dotando il posto di ristorantini, di possibilità di alloggio in guest houses (spartane ma sufficienti per il tipo di utenza), di piccoli locali, di negozi di alimentari e di artigianato etnico, e di un minimo di infrastrutture. Ad Hampi Village ti cambiavano i soldi, potevi affittare una macchina, persino prenotare un treno di lunga percorrenza. I negozietti erano multifunzione, servivano quale surrogato di agenzie magari situate a Hospet, o persino a Bangalore. Tutti si davano da fare, e l’economia girava. Nelle abitazioni andava in scena ogni giorno la stessa vita di tanti villaggi indiani, dove però non ci sono possibilità ufficiali di alloggio per i visitatori, ed i turisti potevano aggirarvisi in mezzo. Questo era un tratto abbastanza unico. Ma il luogo serviva anche quale centro servizi per i numerosi pellegrini locali in visita ai templi della zona. C’erano mucche, abitazioni per i brahmini, risciò, piccole librerie, barbieri. Nelle case si sbirciavano le cerimonie, si preparavano artigianalmente idli, dosa e thali, i cibi locali, e questo mangiavano anche i visitatori occidentali, accanto magari a qualche pancake, a qualche omelette di troppo. Le autorità locali avevano persino, e finalmente, costruito i cessi pubblici, recependone la necessità.
Si era trattato insomma dell’affermazione di una tourist location de facto. La gente più semplice, che in India è la gran maggioranza, si era riversata sul posto visto che vi si poteva campare con lo stabile flusso di turismo creatosi – giovani da tutto il mondo che venivano a vedere le rovine archeologiche, o forse che col pretesto delle rovine archeologiche poi si fermavano a lungo, catturati dal fascino del paesaggio e dalle piacevolezze di una vita da freak in India, uso quest'espressione perchè non saprei come altrimenti definirla; potendo annoverare tra i pregi della cosa una certa semplicità indian style, che mai era capitato loro di considerare possibile nei vari nord del mondo, quelli da dove provenivano. Più di recente, con l’aumento e la banalizzazione ulteriore del turismo, ridotto ai periodi canonici delle ferie d’occidente, giovani europei e scandinavi soprattutto sceglievano Hampi per passarci il periodo natalizio, trattenendosi fino al nuovo anno. Per i locali era l’altissima stagione, su cui campare buona parte dell’anno.
Altri indiani ancora, una piccola parte, quelli che in India campano di espedienti e si accampano ovunque, si erano sistemati lì intorno alla bene e meglio. Alcuni ricavando persino un’abitazione di fortuna sotto i porticati di pietra, retaggio dell’ex Impero Vijayanagar. Cosa che sarebbe impensabile ovunque, d’accordo, ma non in India, vista la sovrappopolazione, un certo lassismo, e l’indigenza di vasti settori della società.
Ma, avvenendo tutto questo all'interno di un'area archeologica, bisognava rimuovere. Le autorità avevano sentenziato che la rimozione dovesse aver luogo entro il 2012. Tutti gli abitanti e le attività economiche; gente comune, piccoli business ed accattoni; tutti dovevano essere spostati da Hampi Village, per far ritornare la zona alle sembianze di museo all’aria aperta. Se l’idea di fondo era di matrice specialistica, archeologica, avallata dall’UNESCO, sembra però che alcuni degli albergatori di Hospet, l’unica città di rilievo della zona, situata a 15 km dalla zona archeologica, l’abbiano cavalcata alla grande. Alla faccia dei comitati di villaggio che si opponevano, erano quindi arrivate le ruspe. Il motivo è ovvio. Dato che ad Hampi non ci sono grandi hotels, mentre un flusso turistico comunque esiste, il secondo fine della demolizione di Hampi Village sarebbe stato il dirottare i visitatori esistenti sugli hotel di Hospet.
Come che sia, le autorità hanno punito questo vasto encroachment, occupazione abusiva di suolo pubblico, con la spietata spianatura di buona parte degli edifici nuovi del bazar. Per la Hampi World Heritage Area Management Authority (HWHAMA), l’agenzia responsabile della gestione del luogo, redattrice anche di un Master Plan datato 2006, nuove strade ed edifici si erano illegalmente sovrapposti ad aree chiaramente riservate alla conservazione, mentre capanne negozi ristoranti sorgevano a qualche metro appena da siti archeologici e di significato storico. L’Hampi Master Plan obbliga alla protezione dell’Heritage Site e ne regola gli sviluppi, mentre negli anni, effettivamente, almeno un centinaio di strutture edilizie illegali erano state erette impunemente, proprio sotto il naso delle autorità. E l’aumento del traffico veicolare con relativo inquinamento, di cui il turismo è ovviamente corresponsabile, si dice abbiano peggiorato la situazione dei monumenti.
Così già nel 2012 le autorità, col pretesto della conservazione, avevano evacuato per la prima volta parecchi di questi “occupanti illegali” dalle loro case situate in mezzo alle rovine (in parte, come per esempio i colonnati, ricostruite dall’ASI) della vecchia Hampi bazaar. Si obbediva all’obbligo di rimozione di ogni tipo di intervento compiuto negli anni dagli abitanti. Secondo il report del quotidiano britannico The Guardian, gl incaricati vennero durante la notte a marcar di rosso gli edifici che si dovevano demolire. Al mattino dopo la gente che viveva e commerciava sul posto vide i bulldozers all’opera, senza potere opporsi. Avevano ricevuto solo 12 ore di preavviso, si scrisse all’epoca – prima del blitz, di evacuazione e demolizione delle strutture si era solo parlato. La decisione recava comunque l’imprimatur dell’Alta Corte del Karnataka, che recepiva le preoccupazioni di HWHAMA ed Archaeological Survey of India, affinchè il sito UNESCO venisse mantenuto come all’origine, senza residenti abusivi nè strutture di altro tipo all’interno.
Le ruspe del 2012 fecero il loro lavoro, ma solo a metà, lasciando macerie che non vennero rimosse mai del tutto (sono tornato varie volte sul posto nell’ultimo decennio, e ce ne sono ancora moloto vicino al grande tempio). Inoltre, non spostarono tutti i residenti: i poveri dai colonnati senz’altro sì, una serie di negozi del vialone che conduce al tempio, fra cui l’unica libreria, quelli sì. Uno splendido ristorantino creato senza cemento né grande edilizia sulle rocce prospicienti il fiume più a valle dietro il tempio, il Mango Tree, quello sì. Ma una serie di altri negozi e locali nel villaggio vero e proprio, quelli no. Un certo nucleo di abitazioni ed esercizi commerciali attorno al Gopi Restaurant era rimasto operativo. Da allora la paura della distruzione prese comunque a incombere su residenti rimasti, su coloro che si erano ritagliati un piccolo ed onesto business che adesso si vedevano costretti a smantellare. E certamente la cosa dispiacque anche a tanti turisti abituali, che certo preferivano soggiornare ad Hampi Village piuttosto che altrove, visto il carattere particolare, piuttosto autentico, del luogo, e le forme di accoglienza a basso costo qui messe in atto.
Al marzo 2018, sono attesi altri pronunciamenti della Corte in materia. Resta il dilemma, che ha suscitato un certo dibattito, se debba avere la meglio un certo conservazionismo radicale su situazioni più integrate dove anche la gente e le sue attività possano trovar spazio. Se esso debba prevalere anche a costo di spostare la popolazione che vive nelle varie locations archeologiche. In stile marcatamente indiano, si sottolinea come queste scelte dovrebbero essere compiute almeno dopo aver consultato, se non proprio col consenso, della popolazione.
Hampi, Karnataka, India del sud. Turisti orientali genere freak ad Hampi Village. L’immagine e‘ di qualche anno fa: adesso il governo ha demolito parte del villaggio, trasferendo gli abitanti altrove, e in molti hanno chiuso i propri hotel e ristoranti sul posto. Foto Renzo Garrone
Si tratta di un punto di vista sacrosanto, che sul piano ideologico non fa una piega. D’altra parte lasciando le cose in mano alle folle dell’India di oggi, visto lo scarso senso civico, la diffusa ignoranza, ed il consumismo che ne avvelena i gesti, un sito archeologico non potrebbe sopravvivere in condizioni di apprezzabile integrità. La stampa locale cita il parere che avrebbero espresso George Mitchell e John Fritz, archeologi protagonisti di alcune tra le principali scoperte effettuate ad Hampi. I due non vedevano nulla di male nel tener vivo il bazar di Hampi Village, ed il villaggio stesso (anche chi scrive, ben lungi dal paragonarsi a famosi archeologi, la pensa allo stesso modo). Il bilancio negli anni dell’intervento del governo invece, alla fine del 2017, è la demolizione di oltre 200 tra case, negozi, ristoranti, guest houses ed esercizi commerciali, tra Hampi Bazaar e l’altra zona di Janata Colony.
Parecchi tra i locali avevano ricevuto una sorta di beneplacito a rimanere ancora, almeno temporaneamente, nonostante sia ufficiale che si deve demolire. Ma molti hanno chiuso i propri hotel e ristoranti non vedendo alcun futuro nel continuare ad investire sul posto, e avendo perso ogni speranza di vincere questa battaglia. C'è però chi tiene il punto, un classico della coscienza democratica in India: "Everybody has a say in Hampi except the locals”.