Tra i paesi avanzati, il Giappone vanta il numero più basso di homeless rispetto alla popolazione. Succede grazie ad almeno due fattori: una certa attenzione delle autorità a quanto succede, e un sistema pubblico di previdenza sociale piuttosto generoso.

Il dato emerge dalle statistiche ufficiali, che parlano di 1 persona homeless ogni 34.000 abitanti, equivalente allo 0,003 della popolazione. Per raffronto, in Europa la Svizzera sta allo 0,02 della popolazione e l’Islanda un po' sopra, mentre nel vecchio continente la Finlandia pare sia nella situazione migliore tra tutti (la condizione peggiore riguarda invece il Regno Unito). In questi casi parliamo però di un numero di abitanti più esiguo, in Giappone siamo di fronte a 130 milioni di persone.

Dal canto suo Mago Yoshihira, che lavora con questo genere di disagio da oltre 20 anni, in un quartiere a rischio nel nordest di Tokyo, ritiene che tali statistiche forniscano solo una parte del quadro complessivo. Qui opera l’associazione YUI, fondata nel 2003, che opera in un’area conosciuta come Sanya, concentrandosi sulle relazioni con la porzione problematica della comunità locale. L’obiettivo è rivitalizzare il luogo, che ha alle spalle una storia difficile, fornendo opportunità di alloggio occupazione e integrazione soprattutto a homeless e persone disadattate. In un Giappone che spesso nasconde la polvere sotto il tappeto.

Sanya

Il quartiere di Sanya ha in serbo una storia del tutto peculiare. Per prima cosa ufficialmente non esiste, nel senso che è stato cancellato dalle carte geografiche di Tokyo una cinquantina di anni fa, quando l’amministrazione volle “ripulire” l’immagine della capitale – Sanya fu a lungo zona malfamata – con un’operazione di massiccio revisionismo. Eppure, nella realtà, tutti sanno dove questo posto si trovi.

In senso tecnico, il territorio di Sanya si estende nei distretti oggi denominati Kiyokawa e Zutsumi, ma nei fatti si tratta di una somma di quartieri, tutti nell’antica area di Taito, nel nord est della capitale.

In una mappatura del tutto ufficiosa (che esiste anche se il quartiere no, e infatti Mago mi manda una cartina via allegato mail, del resto i giapponesi sono sempre perfetti con le mappe), Sanya è delimitata dalle stazioni della metropolitana di Minowa, di Minowa Bashi e di Minami Senju, a nord, dal fiume Sumida a est (dove però prospera oggi il quartiere di Asakusa che calamita ingenti flussi turistici, qui si trova la famosa Sky Tree), e si spinge a lambire l’area di Ueno verso sud. 

Fin dal periodo Edo, nel 1600, Sanya era conosciuta per l’ospitalità offerta ai lavoratori giapponesi, soprattutto manovali ed operai: persone di estrazione differente vi convergevano per abitare, attratte dal basso costo degli alloggi, e da qui partivano per le proprie incombenze quotidiane.

Questa tradizione di accoglienza di livello base, popolare, rimase viva nei secoli, ma quando Tokyo, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu quasi rasa al suolo dai bombardamenti alleati, Sanya divenne una vasta tendopoli di rifugiati.

Poi dopo il 1945 furono proprio loro, i tanti manovali e operai a giornata che abitavano il quartiere, a ricostruire buona parte della capitale. Le tendopoli di Sanya si trasformarono via via in un quartiere di strutture semplici, di alloggi in legno, che nel tempo divennero ostelli per ospitare questa generazione di persone.

Tra il 1950 e il 1980 le cose accelerano. Tokyo vive il suo boom economico, due eventi-simbolo ne certificano il rilancio dopo la Seconda Guerra Mondiale: l’inaugurazione dei treni superveloci, gli Shinkansen vanto nazionale, è del 1° ottobre 1964, mentre dal 10 al 24 ottobre 1964 le Olimpiadi presentano al mondo un volto rinnovato del Giappone. Nel paese la crescita economica di quei decenni è vorticosa, la popolazione si risolleva dalle miserie della guerra, ma compaiono anche inevitabilmente, specie nei quartieri popolari, le contraddizioni di uno sviluppo classico: sperequazioni, ingiustizia, speculazione edilizia.

Soprattutto negli anni ’60 il quartiere viene infiltrato da gruppi criminali e dall’estremismo politico. In questo periodo e fino ai ‘70 Sanya diviene quindi sinonimo di povertà, violenza, alcolismo, prostituzione, disoccupazione, degrado. E si impone il fenomeno dei senza tetto.

Da allora all’oggi i problemi peggiori sono stati senz’altro tamponati. Ho girato a lungo per le strade di Sanya, che a prima vista appare un posto normalissimo, anche se su piccola scala il disagio permane (si intuisce come resti presente pur se occultato). Anche Mago testimonia di come il luogo sia violento ormai soltanto raramente. Eppure Sanya è ancora legata, nell’immaginario prevalente, alla sua immagine passata.

Negli anni le cose hanno mutato pelle. Per dirne una, la popolazione lavoratrice qui stabilitasi è invecchiata, e purtroppo non sempre bene. Intanto, con la gentrificazione che incalza, si vendono gli appezzamenti di terra più ambiti del quartiere, destinati ad un’edilizia di condomini residenziali. Ne conseguono sfratti che colpiscono chi abita qui da una vita, vere coltellate per migliaia di persone ormai anziane, che campano di sussidi pubblici o di una pensione sociale, spesso tutt’altro che in buona salute. Per non parlare degli homeless residui.

YUI

L’idea, in questo quadro, corrisponde a un’iniezione di positività. Si tratta di rivitalizzare quell’accoglienza diffusa – spiega Mago – che resta l’attività prevalente della zona: rimangono infatti ben 109 ostelli a Sanya, dati aggiornati al gennaio del 2025, fonte la locale associazione della ricettività. Dove per ostelli si intende strutture di accoglienza residenziali a buon mercato, quindi appetibili per chi abita la zona da sempre. Ce n’erano di più, 120 fino a qualche anno fa, ma hanno cambiato destinazione d’uso. Con l’invecchiamento degli abitanti e con lo sviluppo edilizio della capitale e il conseguente aumento dei prezzi, si è consumata infatti la transizione di tanti alloggi in quelle che noi chiameremmo residenze per anziani.

Nel costante processo di gentrificazione che interessa l’area, gli investitori che vogliono costruire nuovi edifici, condomini a più piani, offrono ai proprietari somme assai più allettanti del reddito che generano gli ostelli tradizionali. Così gli appezzamenti vengono venduti e gli abitanti, incapaci di pagare affitti più salati, espulsi.

Per la nostra organizzazione, continua Mago, l’unica maniera di contrastare il declino è la creazione di nuovo lavoro in zona, puntando al contempo sui vincoli comunitari rimanenti, su occasioni attraverso cui la gente del posto si incontri. A beneficio di tutti, sia dei comuni residenti (che sono numerosi), sia degli homeless ed ex homeless, sia delle persone ormai anziane o disadattate che vivono di sussidi, sia di coloro che ancora arrivano da fuori per abitare e lavorare in zona. 

L’idea è fare di Sanya “a better place to live”, in uno sviluppo che metta a frutto la diversità, l’inclusione, la tolleranza, valori che la comunità locale già possiede. La mission, generare e poi realizzare progetti da cui tutti diventino orgogliosi di vivere qui.

 

Così, mentre alcuni ostelli a Sanya restano interamente dedicati ai residenti di cui s’è detto (alcuni vivono di sussidi, altri campano del proprio lavoro), vi sono strutture che si trasformano in hotel a buon mercato, ed ospitano viaggiatori e turisti sia giapponesi che stranieri. L’offerta sul fronte turistico è di livello basico, essenziale, ma funziona per via di tariffe decisamente più economiche di quelle abituali della metropoli.     

Tra le varie iniziative a latere dell’accoglienza e della ristorazione YUI organizza delle uscite di pulizia volontaria del quartiere. Queste garbage collection hanno luogo ogni martedi pomeriggio – racconta ancora Mago. Cominciano alle 16.00 oppure alle 17.00 nella buona stagione, e generalmente durano un’oretta. Impiegano gente ospitata negli ostelli, i recettori dei sussidi (i welfare recipients) che lo vogliano, ma vengono guidate da dipendenti della YUI. Le uscite sono un pretesto per coinvolgere la gente della zona, per andare incontro a coloro che ciondolano per le strade, senza uno scopo, per sottrarli ai problemi che nascono dall’isolamento e dalla marginalizzazione. “C’è un sacco di gente da queste parti che non ha niente da fare ma anche nessun posto dove andare. Gente che si era concentrata qui per trovare un lavoro durante gli anni della rapidissima crescita del Giappone economica che arriva fino agli anni ’90, ma poi espulsi dal mondo del lavoro, con l’avvento dell’era post-industriale, coi mutamenti del lavoro stesso e delle strutture produttive.Le piccole aziende per esempio hanno combattuto a lungo per continuare a competere nell’arena internazionale, ma in questo processo il lavoro s’è fatto instabile.

Mago

Mago Yoshihira è una donna minuta sui 50, dai modi delicati. Quando la incontro presso il piccolo hotel che gestisce per la sua organizzazione, vicino alla stazione della metro di Minami Senju, indossa una mascherina e un maglione di cotone elegante.

E’ lei alla guida di YUI, lei che parla un buon inglese e che ha investito sulla sua formazione da social worker all’estero (Francia e Stati Uniti) dopo gli studi all’Università, lei l’anima dell’organizzazione. YUI gestisce quattro strutture, due di proprietà, due in affitto. Due sono ostelli di accoglienza per la popolazione della zona, altri due sono piccoli hotel destinati ai turisti. Inoltre, funziona dal 2018 il Sanya Cafè, all’interno di uno degli hotel aperto ai visitatori, che offre caffetteria e cucina. Le persone dello staff sono in tutto 35, tra cui una decina di ex homeless. Lo scopo è sempre generare lavoro per le persone svantaggiate, che costituiscono il target del gruppo.

“In Giappone molti con questo genere di difficoltà ricevono un sussidio” – spiega Mago. “Nella nostra zona si tratta di 145.000 yen al mese (circa 900 euro), erogazione che in buona parte va spesa nell’affitto di un posto dove dormire e risiedere. Questa assistenza pubblica ha generato la nascita di centinaia di strutture di accoglienza ‘dedicate’, il cosiddetto hinkon business. Perché” - aggiunge Mago “120.000/ 130.000 yen vanno spesi per l’affitto. Un’opportunità, per i proprietari delle strutture, di trarre un discreto vantaggio speculativo dalla povertà degli affittuari. In questo sistema, il pacchetto dovrebbe offrire l’alloggio e qualche altro servizio, ma sicuramente latita l’assistenza piscologica al disagio”. Gli ostelli per anziani di Sanya sono pieni di persone disadattate, sole e in difficoltà. 

Mago affronta sul campo tutti i giorni i fenomeni della marginalizzazione che affligge il quartiere, e spinge per una costante e positiva reazione alle avversità. Lavora sia con i tanti che hanno accettato la social security pubblica, sia con coloro che hanno bisogno di lavorare e vogliono vivere del proprio lavoro, ma dal reddito troppo basso o precario. Ma si occupa anche, per quanto possibile, degli homeless cronicizzati, i cosiddetti rough, che ancora battono le strade della zona, spesso troppo orgogliosi per sopportare le reprimende degli assistenti sociali e di chi si occuperebbe della loro sussistenza ponendo però loro gli inevitabili limiti. Persone ancora attratte da una libertà assoluta, idea forse troppo romantica ed irrealistica per il sentire comune, ma per questa gente irrinunciabile, impagabile: un valore superiore, come testimonia l’etica di tanti vagabondi in numerose parti del mondo.

E’ una problematica classica, quella degli homeless irriducibili che rifiutano d’essere messi in riga in cambio di un tetto, persone dallo spirito anarchico che non ci stanno a farsi sgridare come ragazzini dai funzionari che erogano loro i sussidi.

Un conflitto simile a quello, pur nella differenza di età, dei bambini di strada di mezzo mondo: la libertà è difficile da rinnegare una volta assaggiata, anche quando implica gravi asperità, alla lunga insostenibili. Subentra una condizione dominata dall’orgoglio emotivo più che dalla razionalità, come può raccontare ogni social worker si sia occupato del tema.

Infine, eccoci agli homeless classici, quelli che da noi si chiamavano barboni. Accanto ai residenti degli ostelli esistono anche loro, sebbene siano ormai pochissimi e poco visibili. Quelli che dormono ancora per strada con giacigli improvvisati, un vecchio sacco a pelo, circondati dalle proprie carabattole, protetti, però non sempre, da un telo di plastica. Ebbene, le statistiche testimoniano di una loro radicale diminuzione nell’ultimo ventennio. Del resto in Giappone rimane forte la vergogna per il fallimento, che spinge chi non ce l’ha fatta a nascondersi.

La social security giapponese per i senzatetto

Anche senza assicurazione sanitaria, spiega Mago, le persone senza casa possono infatti ottenere sussidi dal sistema del welfare in vigore. E però esistono anche coloro - e non sono pochi - che scelgono di non accettarlo per la vergogna che la cosa ingenererebbe, se dovessero confrontarsi con la famiglia, dovendo dimostrare di non disporre di mezzi sufficienti.

Secondo il governo (il MHLW, o Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare), nel 2001 erano 25.000 i senza tetto giapponesi. Un numero sceso drasticamente nel 2018 a 4.977 individui – in massima parte di sesso maschile – e a 3.992 nel 2020.

In Giappone il fenomeno, come dicevo, è stato tamponato, soprattutto negli ultimi due decenni. E’ dell’agosto 2002 il varo di una legge specifica che ha generato il drastico calo dei numeri da allora ad oggi (da 25.000 persone ad appena qualche migliaio). Si tratta dello Special Act in regards to Supporting the Autonomy of the Homeless Population, in cui le persone considerate “prive di reddito, di risparmio o di proprietà, incapaci di far fronte alle necessità vitali di base”, potevano ricevere un sussidio appropriato. La legge copriva anche le donne vittima di violenza domestica, mentre nel caso di minori, comparivano forme di supporto e welfare prima inesistenti.