Le cronache dei colpi di stato si assomigliano tutte: i carri armati per le strade, gli arresti dei governanti in carica, le manifestazioni, la repressione, i militari dappertutto. Per la Birmania ribattezzata Myanmar pareva trattarsi di un triste rituale ormai alle spalle. Sembra che certe cose brutte, e difficili, si dimentichino in fretta: quasi che l’occidente, ma persino i birmani che ne vengono lambiti e condizionati tutti i giorni, si fossero illusi di avere scavallato il peggio, d’essersi immunizzati dal virus della prevaricazione. Adesso lo sappiamo con certezza: erano illusioni, appunto. Il quarto colpo di stato in 60 anni s’è puntualmente consumato nella notte del 30 gennaio. E dietro ci sono numerosi motivi, non solo uno. Troppi nodi rimangono irrisolti in Birmania, certo non solo la questione Rohingya.

 

Nell’ultimo decennio, dopo 50 anni di regimi militari (dal 1962 al 2011) le Forze armate locali (il Tatmadaw) avevano aperto a un governo ibrido, formato da civili e militari. All’epoca, quasi increduli, in tanti ci eravamo chiesti il perché l’esercito avesse accettato di lasciare tutto il potere che continuava ad avere.

Myanmar, proteste del personale sanitario dopo il colpo di stato del 1 febbraio. Foto da Internet

Dal 1988 in poi Aung San Suu Kyi, la Lady della politica birmana, era rimasta a capo dell’opposizione; 15 di questi anni li aveva passati agli arresti domiciliari, costrettavi dai generali affinché non nuocesse loro, diventando nel frattempo un’icona mondiale del movimento per i Diritti Umani. Poi dopo la vittoria elettorale nel 2016, la sua Lega nazionale per la democrazia (NLD) era arrivata a formare un proprio esecutivo, seppure in coabitazione con l’esercito. Il diavolo e l’acqua santa tentavano di mischiarsi.

Adesso, nelle elezioni del novembre 2020, la NLD di Suu Kyi ha ottenuto l’83% dei seggi, lasciando al palo la fragile coalizione di partitini sostenuta dai generali. E questi hanno tirato fuori la bufala dei brogli (ci ricorda qualcosa di recente?). “Sebbene qualche irregolarità sia stata rilevata – scrive Human Right Watch – gli osservatori indipendenti della Domestic Election Observer Organizations hanno dichiarato il 29 gennaio che i risultati delle elezioni sono stati credibili, e che riflettono la volontà della maggior parte dei votanti”.

La Costituzione del Myanmar, approvata nel 2008 e scritta sotto il controllo dei militari, lascia d’ufficio all’esercito tre ministeri (Difesa, Interni e Confini) e la nomina del 25% dei deputati in Parlamento. La Costituzione stabilisce inoltre per il presidente il potere di indire lo Stato d’emergenza dopo aver consultato il Consiglio di sicurezza e difesa nazionale (NDSC), controllato dai vertici militari.

Maglietta raffigurante una giovane Aung San Suu Kyi, in vendita di fronte al Bogyoke Aung San Market, a Rangoon. Foto Renzo Garrone 

Perché il colpo di stato?

Perché dunque l’esercito ha scelto un nuovo colpo di mano? Giusto non sapendo fare a meno del potere assoluto, vizietto del resto comune a parecchie forze armate ai quattro angoli del globo? L’Economist avanza l’ipotesi che il generale Min Aung Hlaing, capo dei generali golpisti “sia preoccupato del suo futuro personale, in un paese dove l’esercito è disprezzato” (come è vero!), soprattutto quando “il governo civile ha cercato (invano) di portarlo sotto il suo controllo. Il generale avrebbe dovuto ritirarsi quest’anno” – scrive il settimanale britannico – “e può darsi che coltivasse ambizioni politiche personali, e che tali speranze siano state spazzate via con le elezioni di novembre. Non aveva un piano” – l’Economist cita un diplomatico occidentale di stanza a Rangoon – “ma aveva bisogno di un qualcosa che garantisse la sua eredità, la sua libertà e la ricchezza della sua famiglia”. Si sospetta anche che il comandante “non abbia apprezzato il fatto che lo status dell’esercito sia stato sminuito”.

Ma non è certo tutto qui. La ragione più probabile è i generali più potenti, nell'ambito del Tatmadaw, si sentissero minacciati dal nuovo governo e che dovessero prendere le necessarie contromisure. Al contempo, che le nuove probabili sanzioni economiche da parte dell'occidente non rappresentino la loro principale preoccupazione. Tanto, a dar loro una mano c'è la Cina.

Che la coabitazione tra i democratici della NLD e i generali fosse ad alto rischio era ciò che tanti osservatori fin dall’inizio della ‘riconciliazione’ avevano temuto. Su questo paese c’erano gli appetiti di aziende di tutto il mondo e degli stati più potenti. La Birmania è ricchissima di risorse (materie prime) su cui il progressivo ritiro delle sanzioni internazionali degli ultimi anni rendeva possibile avventarsi. Dato che i militari birmani, è tradizione, hanno sempre prosperato svendendoselo, il loro sventurato paese, essi rappresentano la chiave più facile per arrivare allo scopo. Quindi l’attuale colpo di stato può essere letto, almeno in parte, come il prevalere di quell’ala dell’esercito che temeva d’essere estromessa dal ricco banchetto (troppo schiacciante era stata la vittoria dell’NLD a novembre). O che temeva che il governo cominciasse davvero a metter mano a leggi volte ad interrompere il monopolio dei generali sull’economia, con annesso riciclaggio di denaro sporco.

Ragazzi alla Mahamuni Paya, Mandalay. Foto Renzo Garrone

E infatti, sottolinea Osservatorio Diritti, testata online specializzata in diritti umani, la facciata di democrazia, durante la fase dei due ultimi successivi governi ibridi (civili e militari assieme), ha contribuito ad arricchire frange del Tatmadaw. I generali “hanno tratto vantaggio dall’allentamento delle sanzioni economiche imposte negli anni ‘90 e dall’inizio degli investimenti stranieri nel paese. Anche l’Italia, attraverso l’allora ministro degli Esteri nel governo Monti, Giulio Terzi, aveva dichiarato di essere interessata all’accesso a (queste) gare d’appalto. Diverse aziende italiane, infatti, si sono successivamente recate in Myanmar per parlare e concludere affari. E mentre si parlava di democrazia, i vecchi generali si sono dati da fare, puntando su diversi settori e ingrassando i loro portafogli. Nel luglio del 2020, lo smottamento avvenuto nei pressi di una miniera di giada nel distretto di Hpakan, nordest del Myanmar, che ha causato la morte di oltre 170 persone, ha riaperto i riflettori sullo sfruttamento dei giacimenti e numerose associazioni ambientaliste hanno documentato come dietro a questo enorme business ci sarebbero proprio i militari. Secondo un rapporto del 2015 realizzato di Global Witness” – prosegue Osservatorio Diritti – “il valore proveniente da questo mercato, solo nel 2014, sarebbe stato pari a 31 miliardi di dollari, circa il 50% del Pil del Myanmar. E di quasi 123 miliardi nel decennio 2004/2014. Ad arricchirsi maggiormente (…) sarebbero gli ex generali della giunta. Primo fra tutti Than Shwe, padre-padrone della Birmania dal 1992 al 2011; e la sua famiglia che, nel biennio 2013-2014, avrebbe guadagnato più di 220 milioni di dollari. Ma nello sporco affare della giada ci sarebbe anche la famiglia di Ohn Myint, il nuovo presidente ad interim nominato dopo (l’attuale) colpo di stato, famoso per la sua violenta repressione durante le manifestazioni antigovernative del 2007, condotte dai monaci buddisti”. Conclude la rivista online: “L’organizzazione Justice for Myanmar (Jfm) ha messo in luce il coinvolgimento del Tatmadaw (…) nel settore della comunicazione, scoprendo una rete di imprese internazionali e società bancarie che avrebbero dato alle truppe armate accesso a fondi e tecnologie che sarebbero state utilizzate, oltre che per arricchirsi, anche per violare i diritti umani, commettendo crimini di guerra nelle diverse zone etniche del paese”.

I generali, le ‘insurgenze’, le milizie e le droghe

Perché non finisce qui, naturalmente. In Birmania accade ben altro. Per esempio la pacificazione delle etnie che formano circa la metà della popolazione e che quasi tutte, per decenni, hanno guerreggiato con l’esercito di Rangoon, è tutt’altro che compiuta. Mica ci sono solo i Rohingya.

Oggi 5 febbraio 2021, su Repubblica, è uscito per esempio un pezzo sul narcotraffico in Birmania. Il pregio dell'articolo, a firma di Federico Varese, criminologo italiano e docente all’Università di Oxford, UK, è di ricordarci come i problemi dell’attuale Myanmar siano assai più articolati, e cronicizzati, di quelli che la narrazione prevalente di questi anni ha descritto. Beandosi della presunta ‘normalizzazione' del paese, la narrativa dominante s’è appiattita sul conflitto coi Rohingya e le contraddizioni della Lady, visto che adesso al governo c'era il partito di Aung San Suu Kyi. Troppo facile. Quasi che uno stato vastissimo (676.577 kmq, più del doppio dell'Italia), e dal dopoguerra grande buco nero dei diritti della persona (questo è stata per 40 anni filati la Birmania dei generali) potesse essere ridotto al mero campo di battaglia di quella questione. E che Aung San Suu Kyi fosse giudicabile solo inbase alla risposte su tale controversia. In questo modo di procedere, proprio anche di tanti politologi, mi pare di riscontrare un vizio antico: si parla e scrive senza una reale conoscenza del campo. Ne derivano inaccettabili semplificazioni. 

 

Manifestazione a favore dei Rohingya in Indonesia. Foto da internet

Varese è professore di criminologia (branca della sociologia), all'Università di Oxford in Inghilterra, ed è conosciuto per i suoi lavori sul crimine organizzato. Gli va dato quindi credito. E il suo intervento può servire – lo speriamo – a riportare nel dibattito pubblico il fatto che la Birmania continui ad essere un crocevia di criminalità. Se di sanzioni internazionali bisogna parlare, per prevenire storture del genere essere devono risultare mirate. Selettive, chirurgiche. E’ sui proventi di questa criminalità che da sempre prosperano i generali del Myanmar, non è una novità ma s’era smesso di parlarne (cercherò di scriverne ancora in un prossimo articolo).

Riflettevo ancora nei primi anni 2000, occupandomi di turismo: perché il caso Birmania è unico? (la scaletta che segue è tratta dalle pagine sul boicottaggio internazionale di questo paese inserite nel volume Turismo Responsabile, terza edizione del 2007). Schematicamente, il regime dei generali birmani andava combattuto per numerosi buoni motivi, troppi perché decadessero con qualche anno di parziale democratizzazione. Le cose non sono cambiate di molto, purtroppo. Per questo la seguente lista di orrori è ancora attuale.

I generali vivono di eroina e di droghe sintetiche. La Birmania è tra i primissimi produttori mondiali di eroina. Se il principale produttore mondiale è ormai stabilmente l’Afghanistan, parecchie zone della Birmania hanno velocemente convertito la produzione (con gli oppiacei in calo, si fabbricano droghe di sintesi). Mentre la giunta dichiara di combattere l’eroina ed il traffico di stupefacenti, di fatto certamente scende a patti con i trafficanti, quando non li appoggia direttamente sottobanco. I legami tra narcotraffico e turismo, poi, sembrano essere strutturali: molti grandi alberghi costruiti negli ultimi dieci anni nei centri principali del paese sono serviti a riciclare denaro sporco, anche se è impossibile dire quanto e spesso anche come. Nelle regioni birmane off limits ai visitatori si ritiene che gli stupefacenti circolino – transitino – senza grandi problemi. Nelle regioni confinanti con la Cina, frattanto, i commerci sono lucrosissimi.

Doposcuola in una pagoda, a Nyaung Oo. Foto Renzo Garrone

Il Tatmadaw vende le risorse naturali birmane. I generali stanno vendendo a man bassa le materie prime di cui il paese è ricco: le foreste di legno tropicale (il mitico teak e non solo), ma anche gas, minerali e pietre preziose.

Da quasi 50 anni l’esrcito di Rangoon è in guerra con tutte le minoranze etniche. Karen, Chin, Mon, Kachin, Shan, Arakanesi, e varie altre: sono le minoranze che, al momento dell’indipendenza, si federarono in uno stato unitario in cui l’etnia birmana era maggioranza. Ma fin da subito le cose non hanno funzionato. Da un lato i generali non ne hanno mai riconosciuto le istanze, anche se dove può le strumentalizza le etnie a fini turistici; mentre anche il denaro del turismo, affluendo in buona misura nelle tasche del Tatmadaw, va a finanziare la macchina bellica della repressione. Lo stato spendeva, nel 2000, il 40% del suo budget in armi. Per colpa di queste guerre centinaia di migliaia di cittadini birmani sono costretti a vivere in campi profughi ai confini con la Thailandia, ed altri sono sparsi in varie zone del sud est asiatico, ma soprattutto in Thailandia.

Viola i diritti umani e civili più elementari. Nelle carceri del paese ci sono migliaia di prigionieri politici. I parlamentari che furono eletti durante le elezioni democratiche del 1988 sono in esilio, in Thailandia o in occidente. In Birmania non c’è libertà di espressione, di associazione, di stampa. La gente finisce nei guai se parla a lungo con i turisti. I siti internet, quelli di opinione, sono oscurati. L’uso privato di fax e computer è vietato. Internet è controllata ferocemente.

Deporta la popolazione e la costringe ai lavori forzati. La Birmania ha subito numerose risoluzioni di condanna da parte della comunità internazionale, dei sindacati internazionali e ha contenziosi aperti con l’ILO, l’organismo ONU per il lavoro. Gli spostamenti arbitrari della popolazione, senza compensazioni di sorta, sono frequentissimi, sia per costringerla nei cantieri che il regime apre, che per far posto a infrastrutture turistiche. Vige di fatto il lavoro forzato, sia per i carcerati che per la popolazione civile, obbligata a costruire le infrastrutture. E’ successo con l’importante gasdotto nel sud, che sfrutta il gas naturale del Golfo del Bengala a beneficio delle corporations Total, Unocal, Petroleum Authority of Thailand, e naturalmente dei generali al potere. Ma anche nel caso del turismo, con la costruzione di aeroporti come quello di Bassein, e di ferrovie come quella tra Ye e Tavoy, nel Tenasserim.

E’ responsabile indiretto di tanta prostituzione minorile. Una parte delle ragazzine e delle giovani donne nei bordelli della vicina Thailandia sono birmane (a Bangkok, a Chiang Mai, a Pukhet, come lungo il confine), costrette alla fuga dal proprio paese per via della miseria e delle guerre. 

E’ responsabile dell’esilio dei suoi rifugiati.  A lungo sono stati 1 milione e mezzo i rifugiati birmani in Thailandia, principale paese del loro esilio (molti altri sono in Malesia), nei numerosi campi profughi sorti lungo il confine tra i due paesi. Alla fine del 2018, l’UNHCR stimava ne fossero rimasti nei campi 1 milione e 100.000 (la quarta maggiore popolazione di rifugiati al mondo). Altre stime attestano come oggi i lavoratori migranti dal Myanmar costituiscano la principale workers community in Thailandia: le stime più recenti parlano di 2.3 milioni di individui. Consideriamo poi come dalla condizione di rifugiati, accade in tutto il mondo, le persone diventino facilmente manodopera a basso costo, da sfruttare col ricatto del rimpatrio. E’ quanto puntualmente è successo e succede in Thailandia.

Ebbene, buona parte di questa lista di violazioni è tuttora attuale.

Militari per le strade di Rangoon. Foto da internet

Tornano le sanzioni? Il ruolo della Cina

Nell’aprile del 2020, la UE aveva rinnovato le proprie sanzioni al Myanmar per un anno, fino al 30 aprile 2021. Esse includono un embargo sulle armi che possono essere usate dalla polizia e dai militari, per la repressione interna o per il monitoraggio delle comunicazioni. Bloccata sarebbe anche la cooperazione militare. Adesso, in risposta al colpo di stato e all’arresto di Aung San Suu Kyi il presidente americano Biden ha annunciato una revisione immediata delle stesse sanzioni, ma anche delle leggi vigenti applicabili al caso del Myanmar.

Le sanzioni restano, comunque, strumento contraddittorio. Impoveriscono certamente la popolazione civile che deve sopportarne quasi sempre gli effetti più perversi (per fare un esempio, quello dell’Iran, dove hanno sicuramente impedito un ricorso più pronto ai vaccini), mentre le elite che si vorrebbero colpire continuano a prosperare. Si parla di sanzioni chirurgiche e di black lists, molto difficili però da monitorare e in cui destreggiarsi (per esempio da soggetti imprenditoriali che voglia scegliere con chi fare affari in un paese sotto tiro).

Inoltre, è molto chiaro come o le sanzioni vengono comminate dall’intera comunità internazionale, ed applicate con coerenza e rigore, o in caso contrario si spinge il paese tra le braccia della concorrenza, che non vede l’ora. L’esempio Birmania, che ha una lunga storia di sanzioni, è calzante. Messi in difficoltà dall’embargo dell’occidente, già nel passato i generali si erano appoggiati all’Assia emergente, prima alla Thailandia, poi a Singapore e al Giappone, quindi alla Cina ormai superpotenza, venendone fuori alla grande.“Vacilla un paese che l’amministrazione Obama-Biden era riuscita a sottrarre alla sfera di influenza cinese” – così Federico Rampini per Repubblica riassume l’esito probabile della virata politica in atto nel paese delle pagode.

Manovalanza femminile sulla strada tra Mandalay e Pagan. Foto Renzo Garrone

Anche se, mentre la riunione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite svoltasi nella serata del 2 febbraio non aveva prodotto una condanna condivisa, quella del 4 febbraio ha prodotto un’unanimità di facciata, che include Cina e Russia”. Il comunicato stampa congiunto diffuso il 4 febbraio è di un’ipocrisia notevole. Parla, col solito linguaggio diplomatico, di “profonda preoccupazione”, “di necessità di portare avanti la transizione democratica”, di “dialogo e riconciliazione nell’interesse del popolo del Myanmar”. Poi qualche parola di “preoccupazione per le restrizioni sulla società civile, i giornalisti e i media”, qualche altra di sostegno alla posizione dell’ASEAN, ed infine l’immancabile cenno alla necessità di srisolvere la questione dei Rohingya.

L’inviato speciale dell'Onu per il Myanmar, Christine Schraner Burgener, nel frattempo condannava le azioni dei militari birmani e sollecitava una risposta comune della comunità internazionale. L’Alto commissario per i diritti umani Michelle Bachelet temeva la repressione del dissenso, e che essa diventi violenta. Scrive Agenzia Nova che “il relatore speciale dell’Onu per i diritti umani in Myanmar, Tom Andrews, ha invitato la comunità internazionale a mostrare risolutezza nel denunciare le azioni delle forze armate, assicurando che i responsabili di violazioni vengano portati davanti alla giustizia”. Andrews ha parlato di sanzioni mirate e di embargo sulle armi fino a quando non verrà ripristinata la democrazia.

Capelli a caschetto alla Shwedagon Pagoda, Rangoon. Foto Renzo Garrone

 

D’altra parte, “anche dopo le aperture democratiche concesse dai generali, la Cina resta il primo e preponderante partner commerciale del Myanmar e il suo principale protettore” - scrive il Sole 24 ore. “Pechino ha promesso di donare il vaccino per il Covid-19 al paese, che, neanche a dirlo, è beneficiario degli investimenti per la realizzazione della Nuova Via della Seta, con decine di progetti. Alla fine dello scorso anno, la Cina era il secondo più grande investitore in Myanmar dopo Singapore, con 21,5 miliardi di dollari. Pechino rappresenta anche circa un terzo di tutto il commercio del Myanmar, circa 10 volte di più degli Stati Uniti”. Si vede bene, quindi, quanto conti l’Occidente e quanto l’Asia sulla bilancia delle convenienze dei generali.

E mentre il sito del China Daily scrive che “secondo la costituzione i militari hanno il diritto di prendere il potere” (!), il sito del giapponese Asahi Shimbun ricorda precisamente come “le democrazie mondiali rischino di spingere il Myanmar tra le braccia della Cina” (dichiarazione del viceministro della difesa giapponese Yasuhide Nakayama alla Reuters, mentre chiedeva il rilascio di Suu Kyi e dei membri del suo governo civile). Il Giappone è sempre stato uno dei principali donatori (e investitori) in Birmania, artefice negli anni bui del dopo 1988 di quel constructive engement coi generali che consentì loro di uscire indenni dall’isolamento. Ed oggi il suo governo è molto preoccupato.

Cosa succede ora?

Intanto, il colpo di stato va avanti. Per i militari lo stato di emergenza durerà un anno, poi si indiranno nuove elezioni. E’ stato annunciato che saranno due le settimane di carcere preventivo per Aung San Suu Kyi. Ma sia per lei che per i dirigenti della NLD si stanno fabbricando – lo si legge sui giornali – imputazioni incredibili, grottesche, come l’importazione illegale di walkie talkie!, che però potrebbero giustificare due anni di detenzione. 

Folla in preghiera alla Mahamuni Paya, Mandalay. Foto Renzo Garrone

E la gente? Mentre su internet arrivano video amatoriali a bizzeffe con persone che per le strade e nelle case percuotono pentole e padelle in segno di protesta, e mentre la prima ribellione civile organica riguarda gruppi di medici e personale sanitario statale che non vogliono prestarsi ai giochi del regime, è triste vedere che un buon giornale come il Myanmar Times (la stampa birmana era davvero rifiorita con la democrazia) sia stato normalizzato in fretta (sembra siano bastati un paio di giorni) e debba ormai trasmettere quasi essenzialmente comunicati del Tatmadaw. Unica news sfuggita chissà come è quella che ho letto il2 febbraio sul sito del quotidiano. Riguardava Facebook, “che ha bannato la pagina della TV dei Militari (il Myawaddy TV Network) in quanto organismo che incita o promuove violenza e odio”. Altrimenti il Myanmar Times dello stesso giorno apriva con l’asciutto comunicato della formazione di un nuovo ‘governo’ da parte del Tatmadaw (State Administrative Council, sec l’art 419 della Costituzione del paese), ribadendo come il Comandante in Capo della Difesa abbia il diritto di esercitare i poteri legislativi esecutivi e giudiziari. Alla fine, da ieri 4 febbraio, l’utilizzo di Facebook è stato sospeso (metà dei birmani ha un profilo e si informa solo così).