Foreste e vulcani. La Giava degli altipiani, all’Equatore, è un mondo incantato che non cessa di sorprendere.  

I minatori di zolfo che operano nel grande cratere di Ijien, d’altra parte, vedono probabilmente le cose in modo più prosaico. Quasi tutti provenienti dalla limitrofa regione di Banyuwangi, compiono un paio di viaggi al giorno tra il villaggio di Paltuding e la solfatara. Ogni carico di zolfo giallastro che riescono a portare a valle, fino alla pesa, vale per loro 65.000 rupie (neppure 4 euro). Sono circa 200, si stima, e lavorano in condizioni disumane.

Ma i minatori rappresentano solo una delle antropizzazioni di Kawa Ijen, a 2800 metri. L’altra faccia sono i turisti che hanno scoperto la zona, di cui parleremo fra poco.

 

La caldera di Kawa Ijen, che comprende una solfatara ed un lago, fa parte di un vasto complesso vulcanico di 22 km di diametro. Si tratta di uno dei 130 vulcani che conta l‘Indonesia, sempre in bilico tra l‘attivo e l’attivissimo, situati uno dietro l’altro in una delle regioni più sismiche del globo. L’ultima eruzione del Kawa Ijen, nel 1999, proiettò nel cielo circostante nuvole di cenere, vapore e sassi, ma non lava.

Dal canto suo il lago, largo circa un km e profondo 200 metri, può a prima vista apparire invitante, quando è possibile vederlo (ossia soprattutto dopo l’alba nelle prime ore del mattino). Questo lago può cambiar di colore – come il celebre Kelimutu a Flores  – ma anche ribollire, costituito com‘è di una zuppa corrosiva all‘acido cloridrico, il che spiega le sue tinte mutevoli. Ma va esclusa l‘idea di tastarne l’acqua, anche se solo con un dito.

Il rovescio della medaglia dell‘evidente carica distruttiva di questi vulcani, com’è noto, è la grande fertilità che le eruzioni donano al terreno. L‘attività provoca l‘espulsione di minerali dalle viscere della terra, ed essi fecondano i territori circostanti. Qui ad Ijen il governo ha creato un grande Parco Naturale in altitudine, l’Ijen-Merapi Maelang Reserve. Perchè al di là della caldera di Kawa Ijen le montagne coperte di boschi, l‘aria pulita, e qua e là le piantagioni di caffè lascito del colonialismo olandese, formano un comprensorio di grande bellezza. Ed oggi l’intervento umano protegge, fortunatamente, questi luoghi e la loro leggiadria. Da queste parti ho fatto lunghe  scorribande, a piedi, in moto e nel cassone retrosante di un camioncino scoperto, ospite di un gruppo di contadini sorridenti. Respirando a pieni polmoni l’ossigeno delle foreste pluviali originarie.    

I turisti e il cratere

Ma dove vanno i turisti invece? Nel cratere. Dove rimangono solo lo spazio di una mattina, fin poco dopo l’alba. Uno dei fenomeni più attrattivi della zona sono infatti le fiamme bluastre della notte nella caldera, rese più nette dal buio (del resto quello è l’unico momento in cui si può scendere in questa anticamera dell‘inferno). Nelle ore notturne le fiamme si sprigionano dalla montagna, sempre più distinguibili man mano che ci si avvicina alla solfatara vera e propria. La lava non c’entra, qui si tratta di un gas solforico che brucia entrando a contatto con l’ossigeno.

 

 Kawa Ijen, le blue flames

 

A fronte di flussi di visitatori sempre più cospicui, dall’agosto 2014 lo Stato ha deciso di aumentare il biglietto di entrata al Parco di Kawa Ijen per le gettonatissime (sia dagli indonesiani che dagli stranieri) escursioni notturne: adesso si pagano 150.000 rupie nei weekend, e 100.000 rupie nei feriali. Gli indonesiani arrivano a gruppi, intere compagnie di giovani, non come al Bromo ma quasi.

Complici le fiamme bluastre anche qui, come in tante altre attrazioni turistiche in tutto il mondo, s‘è affermato un rito dell’alba. Che stavolta non consiste nel semplice guardare un cratere, come si potrebbe pensare, bensì dall‘immergervisi dentro! Nonostante i disagi, i turisti a Ijen calano a frotte, anche se l’attrattiva è piuttosto estrema, non proprio accessibile a tutti.

Bisogna svegliarsi alle 2.00 del mattino, per arrivare all’ingresso dell’area parco verso le 3.00, salendo quindi fino all‘orlo del dirupo per essere lì alle 4.00. Da qui si scende giù nel cratere, al buio, con le torce sulla testa. Ci si vede poco, di certo non si percepisce ancora il lago che pure giace in fondo, distante solo qualche centinaio di metri. L’aria puzza di uova marce e di ammoniaca, gas che si rivelano saubito aggressivi per la trachea e la respirazione. Ma via via verso l’alba, quando la luce aumenta, i colori cambiano e il lago si tinge di verde e di azzurro, è il lago stesso a prendersi la scena. La folla dei turisti allora rifluisce.

La discesa al cratere può esere evitata, intendiamoci: dall’orlo del cratere fino alla solfatara sono almeno 300 metri ripidi, lungo un sentiero angusto e scosceso. Chi voglia può astenersi e limitarsi – dopo l’alba – a godere semplicemente del panorama. Evitando anche in tal modo i fastidi respiratori (di solito leggeri) che possono derivarne. Ma i più scendono, perbacco, a creare un girone dantesco dai tratti surreali, che mischia minatori affacendati e turisti attivissimi con le proprie macchine fotografiche.

Adesso alle 8 del mattino, visto dall’orlo del cratere, quando la visibilità si fa buona ed il sole inonda il bacino, Kawa Ijen appare un luogo persino accettabile. Da una parte la solfatara, dall’altra il lago vulcanico di un verde che vira al turchese, il posto acquista una propria fulgida particolare bellezza. Da sopra, ovviamente. Perchè là sotto l‘aria s’è fatta ormai irrespirabile, ed è per questo che turisti e minatori disertano il luogo col chiaro.

Ma di notte tra i fumi e i bagliori azzurri, spettrali, la fatica disumana degli addetti e le polveri, immersi nel buio, pare davvero d’essere caduti in un girone infernale. Una Sierra Pelada indonesiana, dove si guadagna pure meno che nella miniera di fango brasiliana immortalata da Salgado.

Kawa Ijen, la solfatara

 

Per un pugno di zolfo

La solfatara è il luogo dove lo zolfo solidifica in fretta uscendo dalle viscere della terra. Dove forma lastroni giallastri che i minatori staccano dalla montagna picconando, mentre tutto là attorno ribolle e fuma senza posa.

Il tutto in un contesto, l’Indonesia, che resta sotto molteplici aspetti un paese povero. Un paese ricco di risorse ma dove il lavoro umano è perlopiù low cost. Ce lo ricordano le condizioni dei minatori di cui si accennava all’inizio.

Una fauna composita. Alcuni si mostrano gentili e si comportano con dolcezza. Piace loro interagire coi turisti, cui vendono anche qualche souvenir di zolfo. Altri sono spacconi ed esibizionisti, vantano appena possono il mazzo pauroso che si fanno tra i fumi della solfatara. Altri ancora, gretti e rudi, chiedono solo soldi - a brutto muso.

Uno di quelli gentili, con cui parlo in fondo al cratere, vicino al lago, nell’inferno delle blue flames, confida che ha due bambini che sono il motivo di questo suo lavoro ingrato – cui egli si sottopone ormai da 9 anni. Mi mostra con orgoglio la maschera antigas che utilizza, una di quelle serie, che proteggono realmente. Altrimenti qui nella solfatara ti ammazzi – ha detto.

Per me era la prima volta. Una solfatara non l’avevo mai vista, men che meno una del genere. Ho avuto anch’io un attacco di tosse all’inizio, l’aria mi sembrava irrespirabile, volevo tornare indietro ma c’era troppa gente dietro di me, al buio, lungo lo stretto sentiero in discesa. Mi è successa la stessa cosa alle Catacombe a Roma, per dire, situazione claustrofobica ma aria più respirabile – ma memore delle mie difficoltà non mi sentivo troppo determinato, ero anche disposto alla rinuncia. Però ho tenuto duro e non so come dopo poco ho ricominciato a respirare normalmente. C’è però chi capita in situazioni peggiori – non si sa mai con le esalazioni di un vulcano – e tossisce fino al parossismo. Se capita conviene lasciare, e in fretta, non che ci fosse bisogno di sottolinearlo. I livelli di acido solfidrico all’interno del cratere, leggerò poi, superano di 40 volte i limiti di sicurezza.

 

 Kawa Ijen, la maschera antigas in fondo al cratere

 

Un altro minatore fa la spola avanti e indietro più volte al giorno, mi spiega lui stesso, con due ceste colme di zolfo raggrumato, appese a un bilanciere. Percorre più volte al giorno la distanza che conduce dal fondo del cratere, dove si allarga la solfatara, all’orlo del cratere stesso, fino alla pesa situata qualche km a valle a Paltuding, all’imboccatura del Parco. Quando più tardi, me presente, peserà il contenuto di uno dei suoi viaggi con una gigantesca stadera di ferro, questo supererà i 75 kg.

Per i minatori, due viaggi al giorno, che rappresentano la media, sono 130.000 rupie, ossia 8 euro. Un’inezia in termini occidentali, OK invece per un indonesiano povero. Il minatore della pesa, quello dei 75 kg in un viaggio solo, quello grezzo e spaccone, mostrava con orgoglio i calli prodotti sulle sue spalle dai bilancieri di bambù. Ha voluto che li fotografassi. Ci ha tenuto soprattutto a mostrarli alle ragazze.

Un altro minatore di nome Isroni, 45 anni, che fa il pendolare tutti i giorni dal vicino villaggio di Licil, spiega la situazione al giornalista Marius Stankievicz. Anch‘egli trasporta un bilanciere con due ceste di bambù alla volta, le ceste riempite di lastroni di zolfo secco, di un giallo pallido. In tutto, qui, si tratta di 90 kg a viaggio. Essendo il cratere negoziabile solo di notte, poichè appunto per qualche motivo dopo l’alba l’aria si fa irrespirabile, bisogna ottimizzare. Così Isroni porta i suoi 90 kg di carico da un Punto 1 ad un Punto 2, sempre all’interno del cratere. Poi torna al Punto 1 e carica altri 90 kg – questi due sono entrambi viaggi in ripidissima salita, nella parte tossica del percorso, ma sono viaggi brevi. Poi porta il carico dal Punto 2 al Punto 3, e qui siamo prima in pianura e poi subito in discesa, su una strada sterrata più larga, fino alla pesa di Paltuding - un paio km di distanza. Infine ritorna al punto 2 per il secondo carico da 90 kg. E via di questo passo, secondo questo ciclo. Che dura da quando aprono il Parco alle 2.00 del mattino, fino alle 9.00 del mattino stesso.

Come molti minatori, Isroni piccona ed intaglia il suo zolfo da quando andava alle elementari. La vita che fa gliela si legge in viso e sul corpo, parti del quale appaiono sfigurate dallo sforzo. Ma quando gli si chiede per quanto ancora continuerà con questo lavoro lui spiega - more solito - che deve mantenere sei figli, ed ironizza: “Continuerò“ - dice - “finche‘ non mi rompo del tutto“. Isroni lavora anche come bracciante nei campi di riso (di altri) nella stagione giusta, ma quella paga è molto più bassa ed il lavoro solo stagionale.

Il prezzo dello zolfo al kilo, 800 rupie o 60 centesimi di euro, è rimasto tale da tempo immemore - così raccontano i minatori. Ma quando i minatori chiesero un aumento, l’idea fu rapidamente sotterrata dalla Corporation che paga loro il materiale grezzo.  Il governo della miniera a cielo aperto di Ijen è competenza del sindaco di Banyuwangi, la città costiera giavanese da cui si vede Bali, distante in linea d’aria solo una cinquantina di km, ma in realtà molto lontana. Esiste infatti solo una strada asfaltata per questo capoluogo di provincia, che dal Plateau di Ijen deve compiere un largo giro tutto attorno al complesso vulcanico per poi dirigersi verso est.

Nello stesso modo, spiega Stankievicz, mai fu presa in considerazione la proposta di una clinica dove questi braccianti dello zolfo possano essere controllati, dove possano curare le proprie malattie professionali. Su tutte i problemi respiratori; ma anche se maschere e occhiali sono caldamente raccomandati, così come il coprirsi ogni parte del corpo durante l’estrazione e il trasporto, la maggior parte dei minatori non usa questi accorgimenti, e si limita di solito ad una mascherina di tessuto.

Altro problema l‘usura di ossa, giunture e legamenti connessa allo sforzo brutale del trasporto fisico su un terreno asperrimo, in condizioni assurde (ma alcuni scendono e lavorano con le infradito!).

Kawa Ijen, carico di zolfo

D’altra parte, udite, questi minatori sono considerati dei freelance, lavoratori autonomi, e come capita dappertutto ai freelance non hanno coperture, assistenza sociale, pensioni o benefits vari. Lo zolfo viene esportato, soprattutto verso gli USA, ed usato nell’industria della cosmesi, nella sbiancatura dello zucchero, e per fare la dinamite.

Una rapida cernita dei dati raccolti da fonti diverse, inclusa la mia indagine, e poi incrociati tra loro, conduce a una valutazione concorde sui guadagni di questi reietti dell’Indonesia: tra i 7 e gli 11 euro al giorno. Una cifra che riguarda i più giovani e in forma. Per i minatori più anziani, che riescono ormai a portare solo 30/40 kg alla volta, la paga è di solo 3 euro al giorno.

Per questo, per integrare, molti vendono ai turisti i piccoli oggetti che loro stessi intagliano nello zolfo. Eppure parecchi, tra i turisti, trovano la loro insistenza pesante. Molti non comprano niente, offrono piuttosto quattro soldi, un’elemosina, sigarette. Ma si portano via centinaia di foto.