Gli anni sessanta del novecento, con il boom economico, rappresentano in Italia la scossa da cui nasce il viaggio turistico di gruppo verso l’estero. Gli ottanta vedono poi le prime esperienze alternative al turismo più solito (con operatori come Nouvelles Frontieres ed Avventure nel Mondo). Ma è solo nei tardi anni novanta che compare il cosiddetto Turismo Responsabile (da qui in poi, TR). Che spesso si dirige verso il sud del pianeta, e quindi si misura coi paesi poveri.

E’ in se’ un’incongruenza, naturalmente, parlare di Turismo Responsabile in relazione a un “prodotto” (in questo caso un viaggio): TR dovrebbe essere una prefigurazione etica complessiva, una modalità migliore del solito dell’esercizio turistico. TR è quello che tutto il turismo dovrebbe diventare, è un concetto trasversale ad ogni forma di turismo. Ma in assenza di certificazioni attendibili, di garanzie per il consumatore, nel mercato dei viaggi italiano il Turismo Responsabile verrà identificato, a partire dagli anni novanta, con alcuni operatori che si pongono in maniera diversa.  

Per tentativi, lentamente, è attraverso queste esperienze e al movimento che gira loro intorno che si afferma una pratica di viaggio via via più articolata, sulla base di criteri piuttosto precisi. Gli organizzatori di viaggi che si vogliono diversi, riunendosi dal 1998 sotto il variopinto ombrello di AITR, l’Associazione Italiana Turismo Responsabile, si confrontano e progressivamente si attrezzano, attraverso la crescita professionale delle realtà più avanzate. Da allora seguiranno una ventina d’anni di percorso, fino ad arrivare a un oggi in cui l’offerta appare ampia, caratterizzata, e commercialmente congrua. In Italia, questo comparto resta una nicchia dai numeri esigui, ma suscita tra i fruitori responsi significativi. Qualcuno parla di Scuola Italiana del Turismo responsabile, forse la definizione è un po’ pretenziosa essendo questa una nicchia molto piccola. Però il messaggio è forte e chiaro, quello che si mette in atto significativo e reale.

Il logo di AITR, Associazione Italiana Turismo Responsabile.

C’è una Carta dei Criteri alla base dell’esercizio, sorta di Costituzione di AITR, firmata nel 1998 vicino a Verona. Un misto di principi generalisti e di prefigurazioni radicali. Ad essa seguirà una stringata definizione di TR, redatta dalla stessa AITR in assemblea a Cervia nel 2006. Nella pratica, le regole dell’organizzazione di un viaggio “responsabile” sono riassunte in 4 punti-chiave dall’operatore RAM, il primo in Italia a lavorare in questo modo: dimensione umana (con enfasi sull’incontro), dimensione tempo a disposizione, dimensione economica equa, dimensione ambientale sostenibile. Altri operatori del settore (ripeto, si tratta di un micro-settore, di una nicchia ma significativa), si muoveranno sulle stesse linee guida. In questo articolo ci occupiamo del primo di questi punti. Quello che l’operatore Viaggi Solidali ha definito “il turismo dal volto umano”. 

L’incontro in viaggio

L’elemento innovatore è l’incontro in corso di viaggio. Il turismo di gruppo, quello consueto dei viaggi organizzati classici, resta spesso un esercizio superficiale o limitato; visita monumenti, negozi, utilizza guide locali, ma non incontra mai davvero qualcuno del posto. Ebbene nel TR si ribalta la situazione, il tentativo di un incontro autentico diventa centrale. Per dirla con la storica organizzazione inglese Tourism Concern, che ha purtroppo chiuso i battenti nel 2018, si tratta di “rimettere la gente del posto al centro del quadro”.

Chantang, Ladakh. Un gruppo di RAM Viaggi nella tenda dei nomadi. Foto Stefano Salteri

L’antropologo Erik Cohen definisce l’incontro fra turista e locale all'interno delle possibilità offerte dal binomio autenticità/ rappresentazione, individuando varie situazioni-tipo. La prima situazione si ha quando il sito visitato è reale, e c’è la convinzione del turista che il sito stesso sia autentico, con conseguente alto livello di soddisfazione. La seconda situazione è viceversa segnata dalla consapevolezza della inautenticità del luogo. Capita dove il contesto è artefatto, e ne consegue un basso livello di soddisfazione. Se seguiamo questo schema-base, i viaggi del TR italiano verso il sud del mondo rientrano nella prima ipotesi.
Dal punto di vista delle ‘attrazioni’, questo verso sud è senza dubbio un turismo di tipo ‘etnico’. Ancora presente, ma non ossessivo, è l’anelito all’incontaminato, che consiste nella fissa di arrivare per primi dove non sia ancora arrivato nessuno - il che che costituisce una malattia dura a morire. Piuttosto, comunque, i viaggi del TR spostano l’attenzione sulla componente solidale, che automaticamente implica una frequentazione di un qualche tipo della gente del posto. Un elemento quasi eretico, che nel turismo consueto è del tutto assente. Ciò comporta sostituire alcune delle attrazioni classiche con del tempo passato con dei partner locali, spesso nei loro villaggi. La cosa assume un senso più pieno, spesso, laddove vi siano dei “progetti” sociali da visitare e sostenere.

Amritsar, Punjab, India del nord. Margherita Longoni, viaggiatrice RAM, interagisce con un gruppetto di donne indiane al Tempio d'oro dei Sikh. Foto Renzo Garrone

Il resto, dal punto di vista delle attrattive, ricalca gli elementi classici del “buon” turismo culturale e naturalistico: il TR visita i posti belli, templi, chiese, musei, siti UNESCO, Parchi naturali, ma aggiunge la componente dell’incontro. Che, soprattutto nel caso di RAM, ma anche per Viaggi Solidali e Viaggi e Miraggi, poi anche per Planet, diventa un elemento attrattivo a sè stante. 

Ovviamente, per quanto riguarda la cultura, il segno delle preferenze italiane rimane, soprattutto all'inizio, profondamente eurocentrico. Secondo l’antropologo Marco Aime (L’incontro mancato, 2005), gli europei basano su canoni specifici, che sono soprattutto architettonici, bellezza e piacevolezza. Al contrario tanta parte del sud del pianeta, non fosse altro che per le condizioni climatiche, non ha un’edilizia civile, abitativa, di pregio. L’unica architettura costruita per durare è quella religiosa. Le culture di tanti paesi caldi mettono invece in primo piano altre manifestazioni vitali, quasi sempre sociali, spesso comunitarie. Gli occidentali eurocentrici, lo siamo un pò tutti - turisti e viaggiatori - affrontano dunque il viaggio imbevuti di stereotipi. Ed in queste condizioni, difficilmente si fanno bastare i rapporti umani e la fruizione della natura. Tanti italiani in giro per il mondo, di fronte a tanti contesti, concludono che “qui non c’è nulla da vedere”. Lo scrivono anche le guide di viaggio. E spesso è vero, perchè la cultura del luogo è basata su altri presupposti. Si tratta invece di approfondire, scavare e sentire. Un certo spazio in corso di viaggio viene riempito di incontri significativi. In cui turisti più disposti a riflettere accettano di mettersi, almeno un poco. in discussione.

Una viaggiatrice RAM interagisce con un nomade ladakho. Foto Renzo Garrone

Etnico ed etico
D’altronde una delle molle che spinge a queste esperienze è l’etnicità, il colore, il diverso da noi. La stessa spinta che sta dietro il boom delle cucine etniche, diverse dalla nostra, registrato in questi anni non solo in Italia ma un pò in tutto il mondo. Così si può dire che i fruitori della nicchia del TR italiano verso l’estero, e verso il sud del pianeta, cerchino sia l’etnico sia uno scambio più vero possibile. Con una spinta che mi è sempre parsa sincera, una delle cose più edificanti del quadro generale. Cercano soluzioni che permettano loro di accostarsi a come la gente vive realmente. E, posso parlare per me, perchè è sempre stato nelle mie corde far da ponte tra culture diverse, proprio questo abbiamo provato a dar loro (promuovendo dal 1991 viaggi-incontro con RAM, l’organizzazione con cui lavoro).

Loh Tunduh (Ubud), Bali, Indonesia. Membro di un Gruppo RAM visita una scuola locale. La partecipazione agli interventi svolti in classe dai social workers dell’ONG animalista Bawa fa parte del programma di RAM nell’isola. Foto Archivio Bawa Bali

Non evocasse immagini fuorvianti, parlerei di reality tourism. Se tale definizione, appunto, non facesse venire in mente i reality della tivù, coi quali nulla ha a che vedere. Qui parliamo di un turismo calato nelle realtà locali, così come sono, che si dipana in mezzo alla gente. Un turismo adattabile, che nei casi migliori cerca di capire, non si limita a fotografare e fuggire altrove. L’espressione Reality Tours fu coniata negli anni ottanta per i suoi viaggi dall’organismo del Fair Trade californiano Global Exchange, ed era riferita ad esperienze di accostamento alla realtà politica del paese di destinazione che loro organizzavano (vedi Benjamin/Freedman, 1989). Per Global Exchange, si trattava di “viaggiare con uno scopo” (elemento che restituisce una certa quadratura all’esercizio). In base a tale assunto loro, statunitensi, si spingevano addirittura a Cuba, in barba all’embargo, per interagire con la gente del posto…