Ed eccomi, invariabilmente, al tema del velo per le donne. O per essere più esatti, all’hijab.

In relazione al mondo musulmano, di velo e chador ha scritto davvero chiunque. Si rischia dunque la banalità. Per analisi sul tema più corpose di questo articolo, dunque, meglio rimandare a grossi nomi o addirittura ad interi romanzi, centrati sull’argomento; come ad esempio Neve di Orhan Pamuk, ambientato nella Turchia curda dell’est, tra arretratezza e repressione, tra la laicità del protagonista e i demoni del fanatismo dei suoi interlocutori.

Velo e chador, d’altra parte, sono fra i simboli più noti dell’Iran odierno.

Un primo distinguo è fondamentale: una cosa è il velo, che deve coprire solo il capo, il collo ed i capelli; altra il chador, quel mantello nero che protegge le donne da tutto, ma principalmente, si intende, dagli sguardi maschili. Altrove detto burqa (non in Iran), dal punto di vista fotografico il chador non spiace all’esteta innamorato delle sue immagini. Ma è veramente l’unico punto a suo favore. Da ogni altra angolazione lo si guardi, è un disastro. Specialmente quando fa caldo, e l‘orribile pastrano si tramuta in una prigione d’afa - come riferisce afflitta ogni turista occidentale che abbia fatto l’esperienza, specie se estiva. Perchè i chador iraniani sono tra l’altro, quasi sempre, in fibra sintetica! 

In Iran, il termine utilizzato in proposito è comunque hijab, una parola farsi  dall’ampio significato, che codifica un complesso di cose, il contegno da tenere: l‘hijab corretto implica sia un abbigliamento decoroso che un vestirsi con modestia. Per estensione, nel linguaggio iraniano comune, il termine hijab diventa sinonimo di quest’obbligo, dell‘uso del velo e del chador.

Ma il chador tutto copre, e buonanotte. Lo si porta in pubblico, e resta una delle immagini dominanti in Iran. Il velo viceversa è più volatile, si presta ai vezzi femminili. Molte donne, specie se giovani, lo usano con notevole liberalità, quasi come un foulard. Lasciano che ne fuoriescano i capelli. Va detto che, nell’Iran odierno, se qualche volta un velo femminile scivola giù non succede proprio niente. Tra le occidentali, poi, men che meno! (alcune di esse risultano comprensibilmente poco inclini a tenersi a bada in questo senso).

 

Veli e drappi verdi a Teheran, 2009. Alla fine del mandato di Khatami, furono indette nuove elezioni. Il risultato, sfavorevole ai candidati del regime, fu ostacolato dalle gerarchie religiose al potere, ed un massiccio ‘Green Movement’ composto soprattutto da donne e studenti, e in generale da giovani, protestò vibratamente per le strade dell'intero paese. Il movimento fu soppresso con la violenza. Foto da internet

 

E‘ successo me presente che ad una signora occidentale il velo sia caduto precisamente in pubblico, lasciandola a capo scoperto, e che il proprietario del locale le abbia dovuto chiedere di ricoprirsi. Non lo ha fatto in modo severo, questo signore, giusto ammiccando con lo sguardo: occhi prima al cielo e poi al ritratto di Khomeini, per farsi capire. Eravamo in un ristorante di Teheran. Non poteva fregargliene di meno, al proprietario del locale: lui desiderava solo non gli creassimo dei guai. Volevamo mica invitare la buoncostume? Perchè questo era ciò che capitava agli esordi della Rivoluzione, e negli anni tetri di Ajmadinejad. Ma nei miei viaggi nell’Iran di oggi, tra 2015, 2016, 2017 e 2018, non ho mai riscontrato intolleranze drastiche su questo piano. Pur avendo viaggiato, spesso, con donne occidentali. Basta guardare le foto di tanti gruppi turistici a spasso per il paese, vi si può scorgere una certa liberalità. 

 

 In moschea. Donne iraniane ed occidentali fraternizzano davanti all'obiettivo ad Anar, nell'Iran centrale. Il chador, all'entrata dei luoghi di culto, viene di solito fornito dagli organismi di gestione delle strutture. Foto Renzo Garrone, 2018

 

“Sembrano tutte delle schiave“, dice però la vulgata in occidente di fronte alle immagini delle iraniane pesantemente coperte dal chador (in pubblico), come vorrebbe l’hijab ortodosso preteso dal regime. E le ristrettezze in termini di hijab costituiscono un fatto reale. Ma è opportuno dissipare un poco certi luoghi comuni, per farsi un‘idea più articolata – ed equilibrata  – della situazione. Non siamo in un contesto liberale, in Iran - e questo è ovvio. Ma le donne non sono neppure sempre, e tutte, completamente coperte. Per fortuna.

Tra le ristrettezze impressiona anche l’obbligo del foulard stretto attorno al viso, che celi i capelli e la pelle quanto piu‘ possibile. Tanto più in quanto il chador è una sorta di mantello, che si mette e si leva facilmente, mentre un velo stretto attorno al viso e sul capo è in qualche modo un elemento più invasivo, più limitante perchè più intimo. Il modello cui secondo l’Islam iraniano le donne dovrebbero ispirarsi si evince dalle foto sulle carte d’identità: immagini ferocemente standardizzate, Il tessuto ad avviluppare l’ovale del volto, non un capello che sporga. Tutte uguali, tutte visivamente sedate, solo così approvabili dallo sguardo di regime. E le persone di sesso femminile raramente escono bene da quest’esercizio.

Ma il volto non basta, naturalmente. Si tratta di rendere inoffensivi anche il seno e il sedere. Nascondere le curve femminili è l’ossessione dei fanatici, nella Repubblica Islamica, o per essere più precisi dei suoi governanti più oscurantisti e dei loro seguaci.

 

                                Esfahan, la Moschea delle donne che si affaccia sulla grande piazza di Naqsh-e-Jahan. Foto Renzo Garrone, 2017

 

L’obbligo del velo per le donne, nelle sue svariate gradazioni ed accezioni, implica però in questo paese un doppio binario comportamentale. La faccenda cambia parecchio tra contesto pubblico e contesto privato. Così sulla scena dell’Iran contemporaneo, mentre nel pubblico il costume resta piuttosto rigoroso, nel privato velo e chador si diradano. Quantomeno, non vengono usati con la frequenza che in occidente si crede abituale. Soprattutto nelle aree urbane, alcune delle quali note per una certa liberalità, esercitata subito appena ci si senta abbastanza lontani dall‘occhio del regime. Per le donne, certamente, il distinguo va fatto tra le famiglie più conservatrici e quelle più moderniste: per le prime il costume rimane austero, per le seconde tutto è molto meno, o per niente, rigoroso. Nel privato, comunque, buona parte delle famiglie cittadine non impone il velo alle donne.

Ma cosa vuol dire privato? Significa generalmente casa, famiglia, amici della stessa fascia sociale ed appartenza culturale, e questo è ovvio. E però in Iran per estensione diventano privato anche ambiti inaspettati. Come l’abitacolo della propria autovettura, per esempio. In coda nel traffico di Teheran, il velo delle donne spesso scivola più giù, con una certa generosità.

Lo Scià vietò il velo per modernizzare il paese – una mania, questa sua delle modernizzazioni, rivelatesi tutte traumatiche. Come prima di lui aveva fatto in Turchia Ataturk negli anni ‘20 del novecento, ponendo fine a secoli e secoli di obbligatorietà. Risultato del divieto di indossarlo, infinite polemiche ed azioni/reazioni di una storia che oggi si è lunga un secolo: schiere di donne anziane che prima dal velo si sentivano protette, e che poi non mettevano più piede fuori di casa, sentendosi nude. Per una donna che l’avesse portato tutta la vita, uscire senza velo diventava impossibile. Rimanendo alla digressione sulla Turchia, il ritorno del rigore di questi ultimi anni, sotto Erdogan, non parla solo dell’arroganza del potere. Testimonia come il costume di coprire le donne abiti ancora nel substrato psicologico di tanta gente in Medio Oriente. Costume spesso introiettato, e difeso, dalle donne stesse.

Del resto, poche questioni hanno diviso i paesi islamici come quella del velo.

Le ragazze di oggi in Iran lo considerano perlopiù un’inutile limitazione.

                                          C'è modo e modo e modo di portare il velo. Teheran alta, aprile 2018. Foto Renzo Garrone

 

Non tutte per la verità. Ma le più riflessive, o forse solo le più progressiste, pensano che il vero problema sia altrove: cioè nello spazio reale concesso alle donne, nelle opportunità cui davvero possono accedere e in quelle che restano loro precluse. Costoro pensano che il velo sia sì un simbolo, ma non la questione centrale.

Al contrario, alcune lo considerano un rifugio al riparo del quale, non viste, è più facile essere quel che si è.

 

D’altra parte, nelle proteste esplose nel dicembre 2017 in Iran, decine di ragazze si sono mostrate in pubblico, in piazza, deliberatamente senza velo. Per loro, significava ribellarsi contro una intollerabile oppressione. Molte, per i propri gesti di rivolta aperta, sono state perseguite penalmente. E il tema resta bollente.

Vista dall‘occidente, la questione è un pò diversa. Diverso è il nostro immaginario. “Il chador“ – scrive Vanna Vannuccini – “è divenuto in occidente il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce, da noi, che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perchè se ne sono servite per uscire di casa, studiare ed entrare nel mondo del lavoro, svolgendo attività un tempo per loro inaccessibili“.  

Oggi in questo paese, dove vige una certa, innegabile discriminazione, le donne hanno comunque diritto ad un congedo di maternità di tre mesi, con due terzi dello stipendio pagato comunque. Occupano posti di lavoro importanti. Le donne rappresentano due terzi delle iscritte all’università, nell’Iran odierno, anche se successivamente neppure il 20% trova un lavoro. E ci sono più donne che religiosi, in parlamento, anche se il loro numero resta esiguo (17 su 290 seggi del Majlis).

Per altri versi, la femminilità le escogita tutte pur di segnalarsi. Come è giusto che sia. Così anche in Iran se ne vedono di tutti i colori. Chador integrali, in pubblico, ma anche mise veramente ardite, in privato. Di mezzo, “la tipica scelta delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri“ (ancora Vannuccini). 

Càpitano giovani donne di Teheran e Karaj, molto sul frivolo, che non esitano a presentarsi ad un party a casa di amici in canottiera, o con scollature da fare impallidire. Nell’ambito pubblico restano normalmente coperte, appena arrivano nel privato si levano tutto. Ricordo la nipote di un amico, intervenuta (col marito) a una festa cui ero stato invitato, presenti anche vari altri stranieri, sfoggiare una mise estremamente ardita. Il party aveva luogo presso l’abitazione di un musicista, che pero‘ campa con lo stipendio da funzionario pubblico. Grazie al suo seno prorompente, quella ragazza biondissima si sarebbe notata ovunque e comunque, ma era chiaro come lei problemi a mostrarsi propriov non ne avesse - altro che Islam ed hijab!  

Di converso, la women discrimination qualche volta raggiunge l’assurdità. Il velo poco c’entra, niente di logico può nascondersi dietro il divieto di sedere nei posti anteriori di un autobus pubblico, come ci è capitato nel 2017, su un mezzo tra Shiraz ed Esfahan, quando abbiamo dovuto spostare le donne del nostro gruppo di viaggiatori, che s’erano tutte allegramente impossessate dei sedili anteriori. La polizia non voleva. Sguardi allibiti, ma via, poche storie, circolare. Un compagno di viaggio mi ha fatto notare come accada lo stesso tra gli ebrei integralisti di Brooklyn, New York, quelli coi boccoli - che tra casa loro e Manhattan optano per un bus riservato a loro soltanto, dove le donne, obbligatoriamente, siedono dietro.

                                  Teheran, il Cafè Romance. Giovane donna intrattiene gli amici al pianoforte. Foto Renzo Garrone, aprile 2018 

 

In centro a Esfahan, l’hotel Abbasi, un 5 stelle, è la felice ristrutturazione di un ampio caravanserraglio. In mezzo, si apre un magnifico giardino persiano. Lateralmente, vari locali sono adibiti ad usi del tutto prosaici, come per esempio una fumeria, che da queste parti implica l‘utilizzo di pipe ad acqua, quelle che noi definiamo narghilè (in farsi si dice Kalyan). Si presume che in una sala del genere, aperta ad uomini e donne, la gente si rilassi e possa anche aver luogo un certo incontro tra i sessi: dunque il regime butta l’occhio. Mind your hijab, recitano in questi contesti vari cartelli rivolti alle donne. Lo stesso accade nei cortili interni dei traditional hotel frequentati dagli occidentali, antiche dimore ristrutturate ed offerte al turismo. Mind your hijab. Poiche‘, si legge all’hotel Abbasi, “un hijab decoroso facilita il paradiso di Allah“.

Eppure, insigni paladine dei diritti umani esibiscono un hijab per nulla ortodosso, in Iran. E sono donne che molto hanno fatto per il proprio paese - dice una intellettuale a Shiraz. Ma per loro il paradiso può attendere.