(terza parte)

Verso Maumere

Da Larantuka parto per Maumere. Il percorso, mi dicono, dura poco più di tre ore. E’ il mio battesimo sulla Trans-Flores Highway, qualcosa come 700 km e un milione di tornanti (anche se da est a ovest l’isola ne misura in linea d’aria solo 345), dove la velocità media si aggira sui 30 km/ora. Da Larantuka a Maumere a Ende a Bajawa a Ruteng a Labuan Bajo, queste le tappe classiche, le città principali sono distribuite in maniera piuttosto bilanciata sulla mappa, ragion per cui è possibile dedicare mezza giornata ad ogni trasferimento di cittadina in cittadina, riuscendo idealmente la stessa notte a pernottare in un letto di guest house più o meno decente (spesso meno).

Viaggiare tra l’uno e l’altro di questi centri prende, l’uno per l’altro, dalle 4 alle 6 ore, perlopiù sui soliti furgoncini pubblici maledettamente scassati (i bemo) che costano un’inezia ma sono per stomaci forti.

(seconda parte)

Ancora Larantuka

Per capire un pò meglio Larantuka bisogna vederne i dintorni. Così dedico una giornata ai villaggi attorno al monte Mandiri, che domina il comprensorio. Utilizzo per questo periplo su strade di campagna, in senso orario, uno dei tanti pullmini scassati in cui l'Indonesia sembra specializzarsi. Lo prendo a nolo. A bordo solo la guida ed interprete Lambert, e il sottoscritto, più un autista. Il pullmino casca a pezzi, letteralmente, senza un sedile che non si stacchi dalle sue intelaiature o la cui gommapiuma non sia marcita negli anni. Ma terrà fino alla fine del giro.

Partiamo con il santuario dedicato a monsignor Gabriel Manek, accanto al quale sorge una nitida missione cattolica, la Putri Reyna Rosary. Qui, sotto gli alberi frondosi, per una mezz'ora la frequente spazzatura dei dintorni è solo un ricordo. All’interno un pugno di suore locali, discrete ed efficienti, sembra muoversi in continuazione.

(prima parte)

Da Jakarta a Larantuka, via Timor

Sulla carta, vista da fuori, sembra si tratti di una destinazione remota. Di Larantuka, estrema propaggine di Flores, le guide turistiche dicono sia stata la prima tappa dello sbarco portoghese nell’isola (i lusitani, basati a Timor, cercavano nuove basi nell’arcipelago per i propri traffici marittimi).

Mi documento prima di partire. Nel 1575 a Larantuka sorgeva già un gran numero di missioni dominicane. I portoghesi rimasero fino a metà dell’800, le tracce del cattolicesimo dicono siano ovunque. Immagino cattedrali barocche dalle facciate imbiancate a calce, immerse nella vegetazione equatoriale. Mi immagino esplorarle, fotografarle. Le ho già viste in India, in Gujarat e a Goa, e sono davvero uno spettacolo.

La mia idea è appunto esplorativa: percorrere l’isola di Flores a ritroso, da est a ovest, da Larantuka a Labuan Bajo, lungo la sua dorsale montuosa. E’ il tragitto della Trans-Flores Highway che collega uno dopo l’altro tutti i centri principali. In totale sono circa 700 km, in cui si calcola che la velocità media statistica ammonti a 30 km/h.

A Larantuka c’è anche un piccolo aeroporto. Sarà la mia prima meta. Il luogo pare non comporti appeal di sorta: per quanto cerchi qualche descrizione letteraria in proposito, al di là di alcune scarne informazioni, non ne trovo. Però, sebbene non rifugga per principio i luoghi turistici (non condivido l’ossessione di certo turismo per l’esclusività), non avere neppure un visitatore in giro in Indonesia può significare asperità del viaggio, assenza di ogni confort, sporcizia. Passo già molti mesi dell’anno all’estero in paesi poveri, e stavolta non muoio dalla voglia di sbattermi. Vorrei quindi saperne qualcosa anzitempo. Ma non è facile procurarsi informazioni aggiornate.

Alla fine, decido di fregarmene, e compro il mio volo. La voglia di vedere Flores, desiderio che ho da anni, ha il sopravvento.

Una serie di attacchi terroristici suicidi e di bombe sconvolse l’Indonesia centro-occidentale, e in particolare Bali e Giava, a partire dall’inizio degli anni 2000. Furono fiammate, episodi apparentemente isolati gli uni rispetto agli altri (anche se poi si scoprì una matrice comune) ma sollevarono grande scalpore ed ebbero peso nell'economia del paese.

In Indonesia e particolarmente a Giava, un Alun Alun è la spianata antistante il Palazzo Reale (Kraton), usata per scopi cerimoniali. In tutta l’isola è il cuore dei centri storici tradizionali.

La spiaggia di Jimbaran a Bali è, in un modo tutto suo, polifunzionale. Con due volti distinti, uno serale e uno diurno.
Trovandosi a quattro passi dall’aeroporto Ngurah Rai, il secondo dell‘Indonesia, il luogo è giustamente popolare. Lungo due km di sabbia si affacciano anche un paio di resorts di un certo livello e dietro, nel fogliame, decine di altre strutture offrono accoglienza.

“E‘ ancora mio padre che esce in barca tutte le mattine alle 4.00“ - spiega Nyoman, 30 anni, figlio di un pescatore del luogo, e pescatore part-time egli stesso - “per andare a gettare la sua rete davanti a Ulu Watu“. Cioè, nel mare davanti alla grande scogliera, sotto uno dei templi più importanti, iconici di Bali.

Fin dall’inizio della crisi del Covid-19 sono in contatto un’amica di Jogyakarta, una delle maggiori città dell’isola di Giava. Se all’inizio le cose non sembravano andar così male, in Indonesia, adesso paiono peggiorare.

Un minibus locale si arrampica lungo le pendici del Bromo, nell’est di Giava. Complesso vulcanico straordinario, che ha ottenuto lo status di Parco Nazionale, il comprensorio del Bromo è anche uno dei luoghi mitici dell’Indonesia. Esteso su 80.000 ettari ad un‘altitudine che varia tra i 1500 e i 3676 metri, il Parco culmina con la vetta più alta di Giava: il Gunung Sumeru, che incidentalmente è anche un vulcano attivo.

Saliamo dalla città costiera di Probollingo, sulla costa nord giavanese. Fino a Cemoro Lawang, il paese da cui si accede all‘area protetta, sono 56 km. Dapprima si resta in collina, poi si attraversa un tratto di savana, quindi si sale in modo molto ripido. E si continua a salire con pendenze anche del 20%, in mezzo a una natura sempre più emozionante, tra dirupi coltivati ad ortaggi.

Foreste e vulcani. La Giava degli altipiani, all’Equatore, è un mondo incantato che non cessa di sorprendere.  

I minatori di zolfo che operano nel grande cratere di Ijien, d’altra parte, vedono probabilmente le cose in modo più prosaico. Quasi tutti provenienti dalla limitrofa regione di Banyuwangi, compiono un paio di viaggi al giorno tra il villaggio di Paltuding e la solfatara. Ogni carico di zolfo giallastro che riescono a portare a valle, fino alla pesa, vale per loro 65.000 rupie (neppure 4 euro). Sono circa 200, si stima, e lavorano in condizioni disumane.

Ma i minatori rappresentano solo una delle antropizzazioni di Kawa Ijen, a 2800 metri. L’altra faccia sono i turisti che hanno scoperto la zona, di cui parleremo fra poco.

Renzo Garrone

Renzo Garrone, Genova 1956, scrittore e viaggiatore, pubblica dal 1985. Ha visto comparire suoi articoli e foto su numerosi giornali e riviste, realizzato varie guide di viaggio, prodotto saggistica sul fenomeno del turismo e reportage da numerosi paesi. Nel 1987 ha fondato RAM, organizzazione specializzata in Asia che si occupa di Fair Trade, Editoria e Viaggi di qualità, d’incontro e responsabili. Questo è il suo Blog, dedicato al Reportage.

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