Dal Boycott Burma all’incidenza della questione Rohingya

La premessa, anche per parlare di viaggi e turismo, deve partire da quello che la Birmania è stata: un paese ricco di tradizioni, di risorse e di fascino, ma oppresso per 60 anni da un regime tra i peggiori del mondo. In cui la casta dei generali, attraverso i decenni, ha cambiato pelle e persone, continuando però a perpetuare il suo potere. Ad ogni costo. I militari hanno orchestrato e gestito numerosi rimpasti di governo, mentre le generazioni si succedevano le une alle altre.

 Con il regime di Ne Win dal 1962, con lo SLORC dopo il 1988, e poi con il generale Than Shwe, successivamente, fino al nuovo corso di Thein Sein (quando l’esercito conservava ancora il 75% dei seggi in parlamento); fino alle elezioni democratiche più recenti, che hanno condotto al potere il partito di Aung San Suu Kyi. L’esercito, in lingua birmano il Tatmadaw, in questa transizione infinita ha continuato a tenere in mano, ben strette, le redini del potere. Riuscendo pure a garantire a quei militari che escono di scena (per anzianità, per impresentabilità, spesso per entrambe) privilegi a vita ed immense ricchezze. E tutto ciò va tenuto ben presente nel valutare la posizione di Aung San Suu Kyi e del suo governo, in sella da un paio d’anni. 

Questo esercito, questi militari, in buona parte ancora al potere o vicini ad esso, sono la stessa casta che nel 1988 stroncò la protesta popolare con il massacro di 3000 persone che chiedevano democrazia, in una specie di Tien An Men per le vie di Rangoon che fu uno dei capitoli più tragici della storia asiatica del secolo scorso, ma di cui il mondo ha saputo poco. Battuti poi – stracciati, in verità - alle elezioni del 1990, i generali semplicemente rifiutarono di lasciare il potere a chi aveva vinto, la leader dell’opposizione democratica, e poi Nobel per la Pace, Aung San Su Kyi, costringendola per anni agli arresti domiciliari. In seguito alle massicce violazioni dei diritti umani, civili e politici, la Birmania è stata quindi oggetto di sanzioni da parte della UE e degli Stati Uniti. Sanzioni che, applicate in tutti gli ambiti commerciali incluso il turismo, durante un quindicennio, adottate anche dal fronte delle ong, dei movimenti, e da qualche frangia del mondo imprenditoriale, assunsero le sembianze di un boicottaggio diffuso, che ha largamente impedito lo sviluppo del settore.

Pagan, Birmania. Gli ombrelli artigianali sono uno dei prodotti classici della manualità locale. Foto Renzo Garrone

L’occidente, dunque, per un buon quindicennio almeno, dal 1988 in poi, ha largamente evitato di andare in vacanza in Birmania, a causa del particolare mix di sfruttamento ed ingiustizia che qui regnava. Ma mentre il paese diventava il simbolo del turismo deteriore (chi scrive scriveva di “esotica ingiustizia”), i grandi tour operator europei non vi hanno mai rinunciato. Ciò va sottolineato perché rappresenta il vero spirito delle cose, oggi, la loro essenziale driving force: ben sintetizzata dal motto pecunia non olet.

Bisogna dire che nel quadro delle sanzioni il no al turismo, nella Birmania dei generali fino al 2011, ci stava tutto: i viaggi rappresentavano una risorsa per il regime (verso la metà degli anni novanta costituivano la seconda forma di investimento estero nel paese). I soldi del turismo, oltre che ai quadri del regime, andavano esclusivamente alle grandi multinazionali del settore, compagnie aeree, catene alberghiere, tour operators, che in nome dei profitti se ne infischiavano delle brutalità del regime e della corruzione. Il turismo rafforzava altresì un governo illegittimo, diffondendo un’immagine positiva della Birmania. Implicitamente, legittimava i suoi governanti. Mentre l’opposizione legalmente eletta ma soppressa, da subito, aveva chiesto di non recarsi in quella Birmania. Almeno finché non fosse stata ripristinata la democrazia.
Le modalità del turismo dell’epoca non consentivano alla gente del posto neppure un minimo di partecipazione: vigeva in Birmania il divieto rigoroso di associazione, l’adunata sediziosa, altro che turismo responsabile. Altro che incontro. Parlando e intrattenendosi coi turisti, la gente del posto rischiava seriamente di finire nei guai. Non si trattava, in poche parole, di un posto dove andare in vacanza a cuor leggero.

Laguna di U-Bein, Amarapura. Crepuscolo e pagoda dal grande Ponte di teak. Foto Renzo Garrone

Fin qui, il lettore più pragmatico potrebbe rimanere poco convinto: ma era davvero così terribile quel regime, a Rangoon? Ed è diverso oggi? La risposta è che il rosario di manchevolezze di cui si veniva messi al corrente appariva davvero pauroso. Parte delle immense ricchezze dei generali, tanto per dirne una, provenivano da oppio ed eroina: al tempo la Birmania era il primo produttore mondiale del ‘settore’ (successivamente, per le geografie mafiose delle droghe, convenne spostare tutto in Afghanistan, altra terra di conflitti perenni, mentre qui in sudest asiatico cominciarono a produrre meta-anfetamine). I grandi alberghi nei centri principali del paese che spuntarono con le liberalizzazioni, dal 1994 in avanti, venivano costruiti per riciclare parte del denaro sporco circolante (e il gioco continua sicuramente anche oggi). Da cinquant’anni, inoltre, i generali erano in guerra con tutte le minoranze etniche entro i confini del paese (Karen, Chin, Kachin, Mon, ed altri). Insomma. E spendevano in armi tanta parte dei denari del paese.

Ma poi, coi col nuovo corso della politica, dal 2012, il vento era finalmente girato, gli spazi finalmente allargati. Thein Sein aveva scarcerato Aung San Suu Kyi, liberando anche buona parte dei prigionieri politici, ed imprimendo una svolta significativa a una situazione fino allora di repressione stagnante. Aveva concesso finalmente una certa libertà di parola e libertà di stampa. Mentre i militari giungevano ad accordi separati con un buon numero di etnie con le quali il governo di Rangoon aveva sempre, prima di allora, soltanto guerreggiato.

Rangoon, Birmania. Aung San Suu Kyi, ex leader dell’opposizione ed ogi presidente del Parlamento di Nay Pye Daw, in una vecchia immagine di quando si trovava agli arresti domiciliari.  Foto da internet

In quella fase, il paese parve rifiorire. Le stesse ong, oltre ai governi dell’occidente, avevano allora abbandonato il boicottaggio. A ragion veduta. Ed i flussi turistici, sull’onda di notizie finalmente incoraggianti, per la prima volta dopo 60 anni preso davvero a crescere. Mentre il paese si apriva.

Vero che rimanevano tanti nodi irrisolti. Per esempio il vero potere che l’esercito conservava, anche nella ‘nuova’ Birmania, in virtù di un trattato costituzionale da loro appositamente riscritto che si auto-assegnava un certo numero (consistente) di seggi permanenti in parlamento. Una costituzione per alcuni versi su misura, che riservava per loro ministeri chiave, come ad esempio quello della Difesa. Per il resto tutto pareva andare troppo bene, perché gli occidentali andassero ancora a cercare il pelo nell’uovo. Ed Obama poteva abbracciare Aung San Suu Kyi in una visita ufficiale, per la gioia dei supporters di un mondo migliore.

Il pelo nell’uovo, e che pelo e che uovo, doveva arrivare però poco dopo, con l’esplosione della questione Rohingya. Un focolaio di tensioni interetniche esistente in Birmania da secoli, in realtà, in un paese dove in definitiva la questione etnica è il nodo decisivo. Perché interroga la governance di gruppi con culture diverse, e costituisce il problema socio-politico centrale, mai davvero affrontato dall’Indipendenza (si parla pochissimo per esempio dei Kachin, che mai hanno deposto le armi fino ad oggi contro Rangoon, per una serie di ottimi motivi).
La questione Rohingya rappresentava dunque un focolaio mai sopito, che aveva sempre covato sotto la cenere, e su cui probabilmente bastava soffiare perché ne scaturisse un incendio, destinato a propagarsi. E, complice la grancassa mediatica planetaria, a generare nell’opinione pubblica occidentale una nuova, seppure confusa, negatività nei confronti della Birmania. Cui la non-condanna dell’accaduto da parte di Aung San Suu Kyi ha aggiunto i toni spiacevoli dell’opportunismo politico, a danno della leader birmana, che lasciano in bocca a chi aveva a lungo creduto in questa donna il sapore amaro della delusione.

In un altro articolo ad hoc parlo diffusamente della questione dei Rohingya, qui vi accenno soltanto. Mi preme solo sottolineare come quando tutto stava fluendo in direzione della pace, in qualche momento a cavallo tra 2012 e 2013, un nuovo focolaio di odio possibile sia stato riscoperto ed attizzato con la violenza. La lobby della guerra ha bisogno di guerra per vivere.

Ma per tornare al turismo, fatto sta che le mode passano. E una delle prime cose che viene in mente al potenziale visitatore della Birmania oggi sono proprio i Rohingya e la brutta faccenda che li riguarda. Posso citare il caso personale di RAM Viaggi, il tour operator con cui il sottoscritto da sempre lavora, che è stata invitata da qualche sporadico attivista, in nome della questione Rohingya, a sospendere la sua operatività in Birmania. (RAM aveva aderito al Boycott fino al 2013, poi investito nello sviluppo di buon turismo nel paese. Peraltro i suoi viaggi non toccano lo stato Rakhine dove alberga la conflittualità. E i soldi dei turisti che qui porta, non soggiornando nei grandi resorts, non foraggiano i potentati militari).
Gli arrivi internazionali in Birmania, dove oggi a guidare le danze sono di gran lunga i turisti cinesi, erano 2.9 milioni a fine 2017, un declino del 38 per cento rispetto ai 4.68 milioni visitatori del 2015, secondo il nuovo sistema di raccolta dati del ministero, che ora non include più i visitatori giornalieri, ma solo chi passi almeno un notte in un hotel del paese. Ma nel febbraio 2018 si sono registrati 600,000 visitatori internazionali, più che nello stesso periodo del 2016.